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Recensione: “Falò di carnevale” di Guglielmo Aprile | L’Altrove

La silloge Falò di carnevale di Guglielmo Aprile – pubblicata quasi a ridosso della precedente Il sentiero del polline – ha senz’altro un linguaggio più asciutto e condensato, in confronto alla ridondanza barocca di termini ed immagini di quella.

Sul paesaggio delle immensità, prevale, in quest’ultima opera, l’ambiente cittadino e umano. Di un’umanità, in vero, eticamente degradata, in cui l’artificio e la menzogna si contrappongono alla verginità esplosiva dell’essere e della vita che impregnavano la precedente raccolta.

In virtù di questa constatazione possiamo dire che gli assunti tematici di Il sentiero del polline vengono a cadere in questo nuovo testo, permeato di una critica sottile, ma spietata, alla società umana del nostro tempo. Vi si mostrano i giochi fittizi e ingannevoli dell’umana natura, l’indole subdola e menzognera, e uno spirito egoico che reclama sempre il proprio esclusivo vantaggio sulle sorti comuni.

Il linguaggio diviene ellittico e al contempo allusivo, volto a scardinare ogni bieco artificio: mediocri raggiri, volgarità, maldicenze, invidie, l’istituzione consumistica dell’obsolescenza programmata, e le generali ipocrisie che mostrano ingannevolmente il bello e il buono in un apparato che ha invece del mostruoso; e poi ancora le storture della vita di cui è vittima lo sprovveduto e il bisognevole. Insomma, in conseguenza di questa disanima, vengono a cadere le maschere dell’umano obbrobrio: menzogne, nefandezze e inganni “in pensieri, opere ed omissioni”.

Ma, nei versi, l’acredine si stempera, non c’è diretta accusa, non sarcasmo, non invettiva. Un’aura poetica li investe e solleva ogni cosa dalla bassezza della materia contemplata: le associazioni mentali, i nessi, le analogie rimangono lontani e alludono in richiami sottili, animando la sostanza dei versi e creando atmosfere che indicano senza nominare.

Ritroviamo invece, come nella precedente silloge, atmosfere permeate di enigmi e mistero, che traducono inquietudine e sgomento. E un’amara ironia accompagna talora le immagini, fa essa stessa da commento a fatti ed episodi accennati, fino a dipanarsi e ad estendersi all’intera vita che sembrerebbe avara, poiché, una volta solamente, ci elargisce la pienezza dell’essere, la giovinezza gagliarda, mentre tutto il resto è, nel poeta, rinnegamento e sconforto: “Il sangue incrocia l’orbita di Sirio/ sui campi aperti della giovinezza;/ poi il resto della vita/ è avanzo, commento prolisso,/ postilla minuscola che nessuno/ in fondo ai verbali leggerà mai,/ …” (Una volta e mai più).

La vita ci conduce infatti a un cammino unidirezionale, imponendo di continuo scelte che finiscono per restringere il ventaglio delle nostre possibilità esistenziali, incanalandoci in un’unica direzione, ad un’unica meta, verso un destino, magari non intimamente e consapevolmente voluto, dove i sogni dell’anima, le speranze e le attese sono assai spesso deluse. Così ogni cosa sembrerebbe volgere a un costante declino, a indurci là dove non sempre avremmo voluto. E un tale scadimento vale anche per il mondo e per l’intero universo, volti anch’essi a un progressivo entropico deterioramento.

Aumenta, in tal modo, il rimpianto per ciò che ci lasciamo alle spalle, per tutto ciò che avremmo voluto avere ed essere, e non abbiamo avuto e non siamo stati; un’amarezza profonda, esacerbata, con percezione di colpevolezza, espressa nei correlativi oggettivi di tanti versi: “…sotto strati di sabbia c’è sepolto/ nel diario di ognuno/ un animale in agonia: una nave// che affondò prima di essere varata,/…” (Perso strada facendo).

Subentrano, a tratti, incertezze, dubbi e domande senza risposte, come matrici di un universale relativismo, il peso dei ricordi entra pesantemente nella nostra vita, condiziona il nostro presente, ci costituisce in proprio, e contamina, a volte, e stravolge la realtà di un tempo, le sottrae quel che era stata l’essenza dei fatti, delle cose, l’unicum che li rendeva subito riconoscibili.

Il testo è perciò anche una stagione di bilanci: la vita è una partita che si gioca una volta sola, fallita quella non vi è replica, e non vi è salvezza. Anche nell’altra sezione -“L’albero della cuccagna” – occasioni perdute, attese prive di speranza: “…neanche oggi/ la sconosciuta dal foulard turchese/ sembra che passerà” (Rendez- vous); episodi di vita che lasciano nel fondo un residuo di amarezza, “una scorza secca”, il prodotto di scarto della nostra esistenza, fattosi “pietra e oblio”.

Ma in questo inventario esistenziale rientrano anche la fuggevolezza e l’incanto prodigioso che passa e si dissolve, lasciando nell’aria un fugace sentore, come un aroma dolciastro: “…e nel suo incedere/ si lascia dietro una scia/ di vaniglia, e il suo odore/ resta nell’aria appena pochi istanti.”(Non fa quando passa rumore). Rimpianto dunque per ciò che si dissolve, per l’istante di bellezza che fugge, evapora, trasmigra…E nella distrazione con cui vai in giro nel mondo e tra le cose, ancora altra impreveduta magia ti rapisce un solo istante (Fiori gialli).

Stupendi per tema e immagini – tra i tanti che se ne possono citare – i versi di Sincronia mancata, che sembrerebbero nati da quel disaccordo che è nell’intima natura del caos: “…È come se sintonia non possa esservi/ tra la sete e il ruscello che si gonfia,/ tra la spiga e la mano che la coglie:// …”

Un acceso simbolismo percorre le immagini e ci consegna una visione ermetica – come è nell’ultima sezione “Scure del buio”- dove l’angoscia della morte ha il sopravvento, e sembrano risuonare i biblici accenti del “quia pulvis est” da tenere a mente.

Il vento e il mare hanno qui il ruolo di spazzino e quello di smaltitore delle scorie dell’essere, l’uno trascina via ogni cosa nella sua rapina, ed è perciò autore di distruzione e morte: l’altro è “una grandiosa discarica” che “di un viluppo di resti/ organizza la cernita, censisce/ i corpi in entrata e in uscita, accoglie/ nel suo intestino, e le rimette in circolo,/ forme a miriadi: …”

Ruoli ben diversi da quelli di “creatori di forme sempre nuove” della precedente raccolta: ma, in vero, solamente volti di una stessa medaglia, quella che consente, in una catena di vita e morte, il divenire. E non solo le scenografie artificiali, tutto ciò che appare falso e posticcio portano via, ma pure la bellezza che s’incarna nella vita, ed appare tanto effimera e dolorosamente fuggitiva, inafferrabile: anche qui, accenti rapiti al “Fugit hora” della più alta poesia latina, ma anche della grande poesia di tutti i tempi.

Come già nella precedente raccolta – elemento stilistico di non poco conto – la struttura tematica si mostra nella sua circolarità. E basti un solo esempio a saggiarne l’efficacia: nei versi di Alba nera, ad esempio – che aprono la seconda sezione “Cenere sulla fronte”- l’ossimoro che titola il componimento ci riporta dritto all’ultimo verso “il nuovo giorno è morto appena nato”, a rimarcare, appunto, come nel testo, il titolo stesso costituisca il tema e l’elemento semantico centrale, che trova immediata rispondenza nell’ultimo verso, anch’esso staccato dai precedenti e in posizione di rilievo, con analoga simmetria tra il titolo e i versi successivi.

Nell’insieme, l’intera opera suggerisce una visione lontana dal trascendente, e tuttavia non materialistica, tale da richiamare alla mente il concetto e l’immagine leopardiana del vivere. Una visione in cui, ancora, “le braccia imitano ali” – espressioni dell’umano anelito allo sconfinamento – anche se il risvolto è di un amaro pessimismo, intimamente legato all’idea della morte: “…poi resta una chiazza di fuliggine dove/ a volare provammo goffamente,// e un monogramma scuro/ segna la fronte di tutte le rose ” (Imperatrice).

Anche qui, il titolo, Imperatrice – personificazione della morte che permea l’intero componimento – è semanticamente connesso, negli ultimi due versi, all’elemento più doloroso di questa constatazione: alla caducità del bello, alla sua fuggevolezza, alla bellezza segnata dallo stesso destino che accomuna tutti gli esseri della terra. Tali versi chiudono la circolarità tematica del componimento, con una pregnanza simbolica di straordinaria bellezza.

A cura di Rossella Cerniglia.

L’AUTORE

Guglielmo Aprile

Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive a Verona, dove si è trasferito da una decina di anni circa per insegnare. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone, 2008), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle, 2015), “Calypso” (Oedipus, 2016); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi, 2018), “I masticatori di stagnola” (Lietocolle, 2019), “Il giardiniere cieco” (Transeuropa, 2019), “Farsi amica la notte” (Ladolfi, 2020), “Falò di carnevale” (Fara, vincitore concorso Narrapoetando 2021), “Sinfonia del mare” (Il Convivio, 2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.

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