Dopo l’opera prima Rovi, uscita nel 2018, la parola poetica di Alma Spina rinasce nel 2024 nelle liriche della raccolta Corpi abitati, pubblicata nel giugno scorso dai tipi di PeQuod. Quest’ultima racconta un processo di trasformazione in tre atti, secondo uno schema che ricalca la dinamica dei riti di passaggio e di iniziazione, studiati da Arnold van Gennep agli inizi del Novecento e scanditi dal succedersi di fasi di distacco, messa alla prova e ricongiungimento finale dell’individuo con il corpo di una comunità pronta a riaccoglierlo, sotto nuove spoglie. Quello intrapreso dai Corpi abitati di Alma Spina è infatti un itinerario di crescita umana e di maturazione sessuale, che passa per l’esplorazione e l’esperienza del sé, attraversando tre momenti ai quali corrispondono le sezioni in cui è divisa la raccolta: “Esuvie”, “Quando mi alzo rimango seduta” e “Corpi abitati”, da cui deriva il titolo dell’opera.
“Esuvie” è il luogo in cui si annidano morti, ricordi, memorie e tentativi di resistenza, le spoglie di un passato che non può essere messo da parte, ma con cui, al contrario, bisogna giorno dopo giorno fare i conti per poter andare avanti:
Dove vanno a finire i morti
abbandonati i campi i corpi
i baci degli amori –
in quale sopra o sotto vanno
tenendosi per mano o sciolti
come ciuffi di arbusti tra le dune
[…]
Siamo buffi, morti, non ci giudicate
lo sappiamo già fin troppo bene
il niente che attende, in cui state.
Qui troviamo ciò che resta delle persone e delle visioni che hanno attraversato l’esistenza di tutti e di ciascuno, lasciando in essa un segno profondo (orme da inseguire o ferite da curare?), ma anche un punto di svolta che inaugura una trasformazione e dà inizio a un cammino che ha come meta ultima la consapevolezza del sé:
Ti vedo da lontano che riparti.
Non sarai così ordinata e non
chiamerai quando fuori è giorno.
Stanno già aperti i rubinetti
che danno sfiatamento ai radiatori:
presto bisognerà nuotare.
Rimane da parte l’infanzia, rimangono l’adolescenza e la giovinezza, quando, da trentenni, ci si appresta ad attraversare, una dopo l’altra, quelle soglie che conducono inesorabilmente verso l’età adulta:
Molto lento l’invecchiare che comincia
così presto, così ogni capello bianco
è ancora una sorpresa ed è già noia.
“Esuvie” è dunque un congedo alla parte di sé che ognuno di noi consegna al passato, nella consapevolezza di poter continuare a contemplarla, ma, al contempo, obbedendo alla necessità di seguire il ritmo che il corpo e la natura dettano al nostro modo di entrare in relazione con le cose e le persone:
Il sale sparso che ritorna a farsi sale in riva al mare
e quel fogliame che ondeggiante è accumulato nel viale
così son tutti i nostri passi che riguardo dalla vetta:
fanno file allineate, nell’attesa poca fretta.
Nella seconda sezione, “Quando mi alzo rimango seduta”, batte il cuore pulsante dei Corpi abitati: è qui che la trasformazione avviene, prende forma, mediante una serie di testi che raccontano il divenire, l’essere per migrare, l’impossibilità stessa di rinchiudere l’esistenza in strutture fisse:
Mi guardo spesso e molto fissamente
farmi altro – altra da me stessa.
E ogni qual volta accade penso:
oggi non tornerò più a casa.
Ma poi ritorno ed è una metamorfosi –
sto nelle pietre, nel posto dei duri
prima che vengano, lente, le morbidezze.
Ai fini di questo osservare, descrivere e narrare, lo strumento poetico indispensabile è l’ossimoro (“Qualcuno deve essere entrato senza aprire la porta”). La figura retorica che accosta i contrari si rivela l’unico modo possibile per dare voce al rapporto con il corpo e per esprimere al meglio cosa vuol dire letteralmente essere nel corpo: l’ossimoro condensa il prima e il dopo del divenire in un “durante” gravido di senso, in tante istantanee di hic et nunc; l’ossimoro descrive un corpo che è atto e potenza contemporaneamente, mostrando che si può essere più cose contemporaneamente senza violare il principio di non contraddizione. È questa la sezione che probabilmente tesaurizza al meglio il repertorio di valori, esperienze e suggestioni derivanti dall’universo queer, facendone una chiave interpretativa utile per porsi di fronte alla realtà, immersa com’è nella ciclicità di un cambiamento che oscilla tra gli estremi della morte e della rinascita: nulla rimane com’è, tutto si evolve e si trasforma, avviandosi verso la decomposizione (“Inizia tutto con una metamorfosi: / le rughe si ispessiscono profonde / così le borse sembrano riempirsi / di oggetti raccattati senza sforzo”). Proprio per questo nulla può essere etichettato, nulla può essere categorizzato con la pretesa di aver detto l’ultima parola sulla vera natura degli esseri, siano essi persone, piante o animali; al contrario, la tendenza insita in tutte le creature è quella al nascondimento, nel tentativo di custodire ciò che resta della propria rarità per metterlo al riparo dall’invadenza del mondo:
Mentirei se ti dicessi che sono normale:
ho, infatti, un molare superiore a cinque cuspidi.
Una cosa rara. L’igienista dentale
col suo occhio di luce mi chiede:
«Posso fotografarlo? Guardi che la pago».
Non resta che un diniego per preservarmi
in qualche modo. Ma quello
ci rimane molto male: si aspettava,
penso, che abboccassi.
Il queer, insomma, assurge al ruolo di categoria utile a esplorare la metamorfosi dei corpi, ma anche e soprattutto il loro rapporto con la natura. A tal proposito, il modo in cui quest’ultimo viene raccontato instaura un dialogo con la tradizione letteraria basato su una sorta di “riappropriazione”: quella di Alma è la proposta di un nuovo panismo che non ha nulla a che fare con il mito machista dannunziano, carico di suprematismo e ansia di possesso, ma che porta in sé tutta la materna gentilezza della femminilità (“Ma poi ritorno ed è una metamorfosi – / sto nelle pietre, nel posto dei duri / prima che vengano, lente, le morbidezze). Lo scarto tra le esuvie della prima parte della raccolta e la nuova postura esistenziale rispetto al mondo di “Quando mi alzo rimango seduta”, un sollevarsi rimanendo fedeli a sé stessi, riguarda quindi la qualità dei legami: il rapporto con sé e con l’altro non è appropriazione, ma intersezione e disponibilità a fare spazio a ogni debolezza:
Ha portato un oggetto e non è scappato; lo vedo: è lì e mi sta fissando. Ha in mano una cartina con le indicazioni e un mazzo di ranuncoli rossi. Non ha paura. Sta fermo e aspetta. Mi schiarisco la voce e intono la mia litania. Inizia lo spettacolo per cui ho tanto studiato. Si apre il sipario, sposto l’edera e inizio.
I versi di questa sezione sono anche quelli cui si ripristinano i contatti con la letteratura del passato e la tradizione classica, ma da una prospettiva diversa rispetto ai proclami della politica di oggi. In un’Italia che imita il fascismo, richiamandosi orgoglioso ai fasti dell’impero romano, Alma – studiosa e interprete dei miti greci – condivide una rilettura della tradizione classica completamente priva di fini nazionalistici, ma sensibile a tutti i significati che l’antico può produrre nel mondo di oggi, rendendoli parte delle trasformazioni del mondo. La trama dell’esistenza assume dunque le forme del labirinto (“L’orecchio interno è costituito da un labirinto osseo…”), mentre l’io poetico – moderno Tiresia – oscilla nel definirsi ora al femminile, ora al maschile (“Io per te volevo diventare un uomo / volevo mi crescesse un altro odore / addosso volevo sul corpo tutti i peli / la voce più bassa della tua”). Come nume tutelare e ispiratore, fa il suo ingresso il anche il Minotauro: con il suo corpo metà umano e metà animale, la sua diventa un’esperienza in cui ognuno può immedesimarsi, per dare un nome alle proprie paure, ai propri limiti, alle difficoltà che si vivono all’interno di un corpo in cui qualche volta si fa fatica a stare e che è assolutamente impossibile da
definire. In tale accezione, il Minotauro, essere ossimorico per eccellenza, sospeso tra il mondo degli uomini
le quello della natura, ma capace di contenerli entrambi, diventa il simbolo del queer, di tutte quelle realtà che si ribellano alla nostra esigenza di stabilire dei limiti all’esistenza e al modo di essere dei corpi. L’universo mitico, nella parola poetica di Alma, si libera quindi da un giogo che l’ha tenuto forse per troppo tempo
prigioniero: smette di essere un paradigma identitario per difendere un confine, ma si trasforma in una soglia che tutte le persone sono invitate a varcare, per riconnettersi con esperienze del passato, per riconoscersi
come parte dell’universo:
Mi avevano detto di fare la guardia. Mia avevano detto che c’erano porte. Ma qui non ci sono porte e non vedo niente da guardare. L’ingresso è libero. Ma qui nessuno viene. Non c’è nel mondo una sola serratura, non c’è una chiave.
Superate, dunque, le prove del distacco e della metamorfosi, ha inizio la sezione Corpi abitati, che porta a conclusione il percorso di iniziazione che la raccolta. In queste pagine si consuma l’antagonismo tra due facoltà dell’essere umano: la conoscenza e la consapevolezza. L’ansia di conoscere il proprio corpo, di maturare un sapere relativo ciò che esso contiene, impone il bisogno di osservarlo costantemente da vicino e di studiarlo in tutte le sue parti. Tale sete rimane tuttavia inappagata, nella misura in cui tutti i tentativi di esplorarsi risultano vani e tutto ciò che dal corpo esce per venire allo scoperto è destinato a estinguersi:
È semplice: se mi taglio
esce il sangue.
È quando non esce che mi chiedo
dove sono – chi – di che colore
se tutto rimane all’interno.
Cosa portiamo dentro – organi, pensieri, sentimenti – si sente, si avverte, ma sfugge al dominio della conoscenza: anch’esso è irriducibile alle categorie. Solo a questo punto subentra quindi la consapevolezza, ossia la coscienza del sé che si può acquisire nella relazione, l’unica facoltà che può dirci qualcosa sul corpo e su come lo abitiamo. È infatti nel riflesso di uno schermo televisivo o, meglio ancora, nell’amplesso o nelle mani che si uniscono per intraprendere un cammino di amore e di lotta che possiamo arrivare a dire chi siamo, la cosa che siamo e dove vogliamo andare:
nella bambagia che ci vede inoperose
io e te siamo come due animali:
restiamo dentro allo svelarsi
al dissiparsi inesorabile del mistero
facciamo rivoluzione dell’appagamento.
L’agnizione finale – ossia la capacità di scoprirsi padroni e ospiti di un corpo solo nello sguardo amorevole dell’altro – arriva dalla rivelazione del corpo lesbico, capace com’è di assommare in sé la reciprocità dell’esplorazione, la reciprocità della cura:
Indago la tua bocca con due dita
Ti tocco ad uno ad uno tutti i denti.
Mi lasci fare un poco, poi mi mordi.
Esce il sangue: è quel che fa. E tu
mi prendi quelle dita tra le labbra
le curi come una lupa fa coi cuccioli.
A cura di Anna Maria Cimino.
L’AUTRICE
Alma Spina è nata a Savona nel 1991. Si è laureata in Letterature moderne e spettacolo all’Università di Genova, città dove vive e lavora. È attivista femminista e lesbica. Fa parte dell’Associazione culturale Alle Ortiche con la quale collabora per la rigenerazione urbana e culturale di una parte dell’ex vivaio comunale di Genova e per la quale cura la rassegna di poesia performativa Rapsodie. Nel 2018 pubblica la sua prima raccolta poetica, Rovi (Eretica edizioni). Insieme al musicista Stefano Gualtieri porta avanti un progetto di ricerca intorno alla poesia orale e performativa. Sue poesie sono apparse su atelier, settepiani, neutopia rivista del possibile, rapsomag.