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Addio a Mario Benedetti | L’Altrove

Si è spento ieri Mario Benedetti, poeta italiano, era da tempo malato di una grave forma di sclerosi multipla.

Dopo alcune raccolte, Benedetti si impone nel panorama poetico italiano con Umana gloria (2004) pubblicata da Mondadori. Sempre per Mondadori, nel 2008, esce Pitture nere su carta. Del 2013 è, invece, Tersa morte. La casa editrice Garzanti riesce, nel 2017, a raccogliere tutta l’opera di Mario Benedetti e a pubblicare Tutte le poesie.

La poesia di Benedetti è riconoscibilissima, affilata e tagliente. Temi frequenti la sua terra, il Friuli, gli affetti famigliari, il tempo e la morte. Una poesia non affatto semplice, nonostante il lessico usato lo sia, e poi originale anche nella composizione dei versi; una poesia povera di figure retoriche, ma che sfocia nella durezza delle immagini e tende verso un di più, che forse solo un lettore attento riesce a percepire.

Vogliamo ricordarlo con voi, facendovi leggere alcune sue poesie.

Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.


Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.

Ho freddo ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.


Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

La foto è di Dino Ignani

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