Categoria: Recensioni libri poesia

Le nostre recensioni fatte alle più belle raccolte di poesia

  • Recensione: “Come armonie disattese” di Roberto Casati | L’Altrove

    Recensione: “Come armonie disattese” di Roberto Casati | L’Altrove

    Nell’opera poetica di Roberto Casati, Come armonie disattese (Guido Miano Editore, Milano 2024) ritroviamo un motivo romantico decadentemente-nostalgico («ho fermato le tue mani sulle mie labbra, / e rubato ciò che resta / di quello che non saremo mai più domani», p.21; «il freddo di una primavera / che come te tarda ad arrivare», p.31); nonché similitudini e metafore («Il tempo breve alle distanze», p.33; «sapori non banali dellessere», p.34); nonché la propensione verso loltre e la dimensione umana temporale; nonché il cesello letterario («sento il non scontato del tuo profumo», p.37; «cruda realtà lindifferenza che / ancora una volta uccide donna e amore», p.73); nonché il lirismo («Sorridi nellultima foto / reggendo con dolce carezza / la vita del tuo bimbo», p.73; «solo cerco in silenzio / la fragile lucciola accolta nella mano», p.72); nonché la passione («la febbre indefinita / che ridona tensione al sospiro damore», p.22; «domani forse ricorderai / la tua mano dimenticata nella mia», p.48).

    Il rifugiarsi nella natura ed esaltarne la bellezza, per consolarsi delle più o meno avverse vicissitudini esistenziali («il vociare della piazza in primavera», p.48) è un motivo ricorrente.
    Ci complimentiamo per i buoni sentimenti e la sensibilità cromatico-affettiva, dimostrata nellesposizione accoratamente poetica di luoghi e stati danimo, augurando al Casati, in un futuro non lontano, di poter coronare i suoi lirici sogni di pace e benessere comune.

    A cura della poetessa Fulvia Donatella Narciso (in arte Viulfa Scaroni)

    Alcune poesie scelte della raccolta:

    Quello che capita
    in stanchi momenti
    rimuove dal cuore le disattenzioni,
    scivolando oltre il già visto,
    forse un grido più volte riconosciuto.

    Dietro langolo
    sfuggono parole antiche,
    e quello che mi confonde
    sono i tuoi sguardi,
    oltre gli angoli a dare senso alla notte.

    Ho bruciato parole
    e raccolto fiordalisi ormai appassiti,
    ho fermato le tue mani sulle mie labbra,
    e rubato ciò che resta
    di quello che non saremo mai più domani.


    Scivolano dimenticati sguardi
    stanche ipotesi
    sulla sabbia alzata dal vento,
    segreto svelato in crepe antiche.

    Ti aspetto ancora qui,
    frase improbabile
    di un percorso già abbandonato.

    Sfidando il freddo di una primavera
    che come te tarda ad arrivare.


    Attraversi lombra allultimo bagliore
    portandomi nel tuo tempo,
    in una sera inquieta che
    copre le spalle di un velo leggero.

    Cammini, guardando il mare,
    un sorriso di breve felicità,
    gli occhi fatti di segrete parole e
    i piedi bagnati dalla risacca.

    Mentre mi passi accanto
    sento il non scontato del tuo profumo
    raccontare lorigine della meraviglia,
    una imperdonabile lusinga.

    Allora capisco che voglio portarti
    nel mio orizzonte, nascondendoti al mondo
    per il tempo esatto in cui i nostri occhi
    vedranno insieme alba e tramonto.

    LAUTORE

    Roberto Casati (Vigevano, PV, 1958) si è occupato di informatica gestionale. Ha pubblicato i libri di poesie: Amore e disamore (1984), Roma e Alessandra (1986), Coincidenze massime (1988), Ipotesi di fuga (1992), In navigazione per Capo-Horn (1999), Carte di viaggio (2016), Appunti e carte ritrovate (2020). Ha conseguito molti premi e riconoscimenti; tra i più recenti ricordiamo il primo posto al “Premio Letterario Internazionale Tulliola-Renato Filippelli” del 2023.

  • Recensione: “Il fosso” di Edoardo Piazza | L’Altrove

    Recensione: “Il fosso” di Edoardo Piazza | L’Altrove

    «Le parole non colgono il significato segreto, tutto appare un po’ diverso quando lo si esprime, un po’ falsato, un po’ sciocco, sì, e anche questo è bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d’accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d’un uomo suoni sempre un po’ sciocco alle orecchie degli altri.» (Siddharta, traduzione di Massimo Mila, edizione Adelphi, collana Piccola Biblioteca, 1973-2011, pag. 190)

    Leggendo la prima poesia de Il fosso di Edoardo Piazza, pubblicato da Transeuropa Edizioni a marzo 2023, non possono non venirci in mente le parole sovracitate da Siddharta.

    Barattare il Nobel con le pizzette rosse

    Mentre l’antenna inculcava paura instillando paura nel suo figliol prodigo
    io ricercavo il samana scalzando il samsara con balzo metodico.

    Quelle di Edoardo Piazza, infatti, sono parole, versi, poesie che forse un po’ ci rimangono segrete. Il poeta, in questa sua nuova raccolta, è autentico nella sua complessità, nell’accostamento di temi e termini che, di primo acchito, sono diversissime tra loro, in contrapposizione o vengono da regioni tematiche differenti. Qui sta, per l’appunto, il divino ascetismo nel creare un perfetto equilibrio tra le diramazioni delle parole. Ma non solo. Nelle poesie successive si prende ad esame la realtà del mondo, in una narrazione di fatti tra mitologia e verità. È il caso di Matrimoni:

    Matrimoni

    Il Vespro, Antigone,
    non è la fine.
    Venezia galleggia ancora.
    L’Amore è morto
    ma resistono le candele,
    i gechi attaccati ai muri.
    Scorre la piroga dell’orologio.
    Odoacre soggiogò i dalmati,
    piansero i vietnamiti,
    c’è disorientamento tra le fila degli iracheni,
    è in terapia intensiva il polmone dell’Amazzonia.
    Gli anelli di Saturno
    non entrano nelle dita.

    In questo testo si incontrano Antigone, Odoacre, Venezia e l’Amazzonia, terminando con un viaggio fuori dal pianeta Terra.

    Il fosso qui è una depressione ed un attraversamento necessario. Ci vuole coraggio e pazienza, ma anche quel briciolo di pazzia. Questa sana follia del poeta non sta nel buttare a casaccio termini nella speranza di tirarsi fuori un qualcosa che possa somigliare ad una poesia o ad un verso, bensì in quel beat, che tradurremo come beatitudine, ossia quello stato gaudio e appagamento nella composizione stessa del verso. Quindi un fosso che è depressione necessaria ed un’uscita altrettanto necessaria da esso. Da questi presupposti riusciamo bene a comprendere il mondo di Edoardo Piazza e il particolarissimo modo di scrivere.

    Ogni poesia è in evoluzione, si piega in se stessa, risorge, si staglia davanti al lettore che un po’ si ritrova spiazzato. Il poeta guarda la realtà con occhio diverso e crudo; quello che Piazza ha è un occhio poetico differente dal solito e questo lo appuriamo leggiamo le poesie successive della raccolta:

    La coppia

    Il tuo sorriso di tungsteno
    mi irrigidisce.
    I tuoi occhi escavatori frustrano
    i miei quattro capelli,
    che rivelano che siamo in troppi.
    Una nicchia di spuma sarà nostra caverna;
    lì partoriremo figli ossigenati
    per darli in pasto ai cannibali
    se non saranno attenti alla libertà.


    Spaesaggio

    Spaesaggio effimero senza cuore,
    stretto ai miei gomiti con furore.
    La sedia è una sedia,
    la forma mi informa.
    Le gambe di cera su cemento che gonfia il viso,
    di preciso…
    non ti so dire.
    Una matita è per tutta la vita.
    E allora son venuto al mare,
    dicono il mare,
    io vedo soltanto vapore
    di un grigio colore
    che smorza l’umore.
    Ulcere manco fossero ciminiere.
    Sapore di non arrivare.
    E gli altri che fanno?
    Intanto se ne vanno a consumare…
    Nonnette con le sigarette indossano magliette
    per gli happening.
    Cannucce nelle noci di cocco:
    i cocktail si squagliano allo scirocco
    in un’atmosfera languida che ferisce i visi,
    divisi
    dalla voglia di scappare.
    Oggi dopo anni ritrovare quel geranio
    morto e poi risorto per puntar l’iperuranio.
    Fendere la piovra con meticoloso onore,
    rendere ogni cosa viva coda di pavone.

    Questa realtà narrata a volte appare distorta, comica, surreale. Non c’è bisogno di affermare che in questo suo verseggiare il poeta si trattenga nei dettagli, ed è interessante l’uso che fa delle rime, così che ogni poesia suoni come una canzone o ci ricordi qualche antico e classico sapore letterario.

    In sostanza, Il fosso è un libro non immediato, ma da assaggiare, poi prendersi una pausa e ritornare tra le sue pagine per riscoprirne l’unicità, ciclicamente, senza esserne sormontati e uscirne deliziati.

    L’AUTORE

    Edoardo Piazza (Roma, 1986) ha studiato Scienze Politiche e ha fondato un’associazione socio-culturale. Si occupa di revisione testi e ghostwriting. In poesia è stato finalista al Premio Bertacchi e al Premio Zeno. Ha pubblicato la raccolta “Container!” con Ensemble Edizioni, presso la quale è uscito pure nell’antologia Congiunti e nell’Agenda Poetica 2022. Il suo primo romanzo, “Il Capodanno di Umberto Rose”, è stato pubblicato nel 2020 da Apollo Edizioni.

  • Recensione: “L’Albergo dei morti” di Fabio Dainotti | L’Altrove

    Recensione: “L’Albergo dei morti” di Fabio Dainotti | L’Altrove

    L’albergo dei morti è una miscellanea di liriche del poeta, nativo di Pavia, Fabio Dainotti, poi trasferitosi al Sud – una sorta di emigrazione a rovescio – e stabilitosi a Cava dei Tirreni nel Salernitano.

    Il libro ha visto la luce nell’ottobre del 2023 ad opera di Manni Editori. Stranamente non vi si legge una prefazione, mentre Nicola Maglino è il curatore di una succinta postfazione. È proprio qui che possiamo apprendere alcune notizie sugli interessi culturali del poeta, o almeno su alcune letture giovanili degli endecasillabi di Camillo Sbarbaro, delle perplessità letterarie di Sergio Corazzini, di un paio di opere di Arthur Rimbaud: Vocali e Battello ebbro, così come dell’incontro fecondo con il romanzo di Alain Fournier Le grand Meaulnes, in cui trovò un’immedesimazione ideale con i sogni, i progetti, le illusioni dell’adolescenza. Interessi che si allargarono al cinema (film di Bergman) e alla musica classica (Bach, Mozart, Beethoven).

    Nonostante l’acquisizione di un certo spessore culturale, il linguaggio poetico di Dainotti non è influenzato, se non in minima parte e marginalmente, da strutture metriche e costruzioni stilistiche accademiche o complesse, frutto di un labor limae sulla parola: possiamo considerarlo certamente un cesellatore istintivo, primitivo e naif, ovvero un poeta dall’ispirazione spontanea, diretta, senza mediazioni intellettuali. Il lessico volutamente non curato, assume forme spesso sperimentaliste accessibili tuttavia alla massa dei lettori, che si possono ritrovare in questo cantore del minimalismo quotidiano specchiati nei loro reconditi pensieri. I suoi nonsense rappresentano accostamenti imprevedibili, sorprendenti di immagini analogiche e sinestetiche, mentre altri termini diminutivi rimati e le atmosfere a cui ci rimandano sovente le sue creazioni, sono indubbiamente di sapore crepuscolare, sia nel significato poetico del termine (tendenza letteraria del primo Novecento), sia nel senso etimologico, ovvero aggettivo di crepuscolo, che tende al tramonto, al termine della vita terrena.
    Le sue creazioni poetiche, talora con la misura dei brevi poemetti, sono altrettanti quadretti di vita vissuta, intrisi di autobiografismo, di rimpianti memoriali per la giovinezza trascorsa e non più revocabile, di ‘racconti’ di affetti familiari non retorici ed originali, di raffigurazioni di una serie di personaggi pervasi in gran parte da un indefinito senso di fallimento esistenziale, portatori di esistenze ‘sgangherate’, del contemporaneo ‘male di vivere’, quasi catalogabili – con diverse motivazioni – alla stregua dei ‘vinti’ verghiani, ma senza l’afflato storico-drammatico dello scrittore catanese.

    Il titolo del libro non è ovviamente beffardo, ma reale, poiché quasi tutte le sue figure ritratte sono già morte e questo albergo dei morti gli appartiene, è il luogo dove può radunarle, ricordarle, sempre con affetto e grande sentimento, anche quando l’ironia o la satira sembrano indicare l’opposto. Lui si sente quasi un sopravvissuto precario a parenti e amici defunti, coi quali rimane un legame indissolubile. L’umanità dispersa di Dainotti rappresenta l’anelito ad andare oltre, all’amore, al fondo dell’umano per sentirci tutti insieme in questa avventura terrena misteriosa ed inesplicabile: «La bianca gleba sotto i ginocchi / pastosa, friabile avevo; / ma vuoto il cielo, se alzavo gli occhi; / Signore non ti vedevo» (Un cielo vuoto).
    Tra i versi più significativi del ‘male oscuro’ esistenziale si trovano questi: «… dover andare dove / non ti aspetta nessuno / quanti fiori ho calpestato / quanti amori ho rifiutato» (Viaggi); «… e moriamo ogni giorno, ogni momento; / ma il faut tenter di vivre (verso di Paul Valery), sì, tentare / di vivere sapendo di vivere” (L’albergo dei morti); «… Distesi sotto terra, allineati / o sovrapposti, a strati, / allungati, con le mani in croce; / placidi, con la luce / fioca del sorriso, / ci aspettano laggiù i nostri morti» (Musica d’altri tempi); «… E non ci andrò mai più in quella casa, / dove c’eri tu, la mia seconda madre, madre buona, / dove risuonava la tua voce, / come una musica dolce e segreta. // Tutto questo eri tu per me, per noi; / e ora che sei partita per sempre, con te / tutta la nostra casa è seppellita» (Lamento per la morte di Gina: epicedio non corale per l’amata zia Gina). Segnalo ancora Pioggettina, quadro naif di un interno; Sera, 38 pièces amoroso-esistenziali; Campane di Lombardia, commoventi nostalgie di gioventù; Novecento, accattivanti immagini dai tavolini d’un caffè; Ritorno, la perdita delle radici; Sospensione, il vuoto del non-amore; Cimitero marino, ironica poesia sul suo luogo di sepoltura in riva al mare.

    A cura di Enzo Concardi.

    L’AUTORE

    Fabio Dainotti è nato nel 1948 a Pavia, vive a Cava de’ Tirreni nel Salernitano.
    È presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana. È presente con testi critici e creativi in molte antologie e dirige l’annuario di poesia e teoria letteraria “Il pensiero poetante”. Traduce dal greco e dal latino. Ha pubblicato varie raccolte poetiche.

  • Recensione: “Vivo e invisibile” di Alessandro Camilletti

    Recensione: “Vivo e invisibile” di Alessandro Camilletti

    L’epoca dell’opulenza ha generato il bisogno del vuoto, la necessità dell’assenza, la voglia di negarsi al mondo. È quello che dichiara fin dal titolo Alessandro Camilletti nel volume di poesie Vivo e invisibile (peQuod, 2023), ma nel senso che della poesia frequenta il limite estremo, nella forma come nei contenuti. Raccoglie poesie scritte nell’arco di quattordici anni e a leggerle si sente il rumore dell’affilatura, lo sfregare dell’erosione; emergono dalle acque millenarie versi definiti che ricordano le rocce levigate. Qui il poeta toglie parole come noi dovremmo togliere gli orpelli inutili che ci hanno allontanato dalla vita autentica, e in questo deserto spiccano il vuoto di certe mitologie, i segni imprescindibili del nostro tempo fatto di miraggi, nausea, sofferenza, decisioni impossibili; per anni gli scrittori hanno immaginato il futuro, per anni hanno colorato la letteratura con utopie e distopie, e ora che siamo nel futuro non ci resta che constatare solo un malessere, quasi come se “essere” fosse diventato doloroso.

    Ho trovato me stesso
    fuggendo dall’abitato
    restando vivo e invisibile
    per tutto il tempo
    riluttante alle tradizioni
    ai mucchi sparsi di pedoni
    pedine votate al massacro

    Odio i loro costumi
    il calco del vuoto
    che chiamano moda
    le vetrine della banalità
    in cui si specchiano
    per riconoscersi

    Tanto non li sopporto
    che neppure li maledico.

    Camilletti tenta di trovare la salvezza, prova a tracciare una possibile strada. La povertà di parole rispecchia non soltanto quel deserto di emozioni, quella scarna umanità rimasta a brulicare nelle strade, ma anche l’idea rivoluzionaria per tentare di guarire. L’unica possibile oggi. Una rivoluzione fatta per sottrazione, che alcuni chiamerebbero decrescita, involuzione, ma che così non è. Non si tratta si tornare indietro, di tornare a vivere nelle caverne o come animali, non si tratta di sterili propositi, ma di compiere il tracciato di una parabola, la quale scende ma va più lontano. Spogliarsi di tutto quello che la società ci ha costruito addosso è difficilissimo. La società non è fatta di eremiti, e se lo fosse non sarebbe più una società. Il tema che affronta Camilletti è attualissimo e difficilissimo: il confine tra un emarginato e chi non si lascia avvelenare dalle costrizioni sociali è molto labile.

    Crea il tuo borgo ideale
    nel caos dell’ecumene,
    rifuggi gli sguardi indiscreti
    i facili abbagli
    il tutto e subito
    che non conosce disciplina

    L’idea costruttiva che emerge dal libro mi ricorda la lezione del critico Giovanni Pozzi. Nel suo libro Tacet (Adelphi, 2013) avvertiva:

    Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori.

    E ancora:

    Solo capace di solitudine è l’individuo che sa sottrarsi alla banalità quotidiana, il che comporta la fuga dal consorzio umano.

    Ma Pozzi avvertiva quale fosse la maggiore insidia per colui che tende alla solitudine: il rischio di affogare il soggetto nell’oggettivazione di sé. Camilletti pare aver incorporato questa lezione: ritroviamo la cappa opprimente dei giorni in cui viviamo, la denuncia di quel vuoto assordante che ti fa sentire stufo di tutto, ma anche l’allontanamento, il distacco dal consorzio sociale, in un ritiro sereno, “verticale” (parafrasando ancora Pozzi), nel senso che il poeta non si chiude nella cella dell’eremita, ma cerca una dimensione di assenza che gli consenta di vivere, di trovare la disciplina per una vita nel segno della verità.

    Non la quantità
    Non la buona volontà
    Cerchiamo luci
    Pur sempre abbagli

    Ognicosa scivola dalle mani
    Nessun argine
    La verità ci spoglia di tutto.

    A cura di Valerio Ragazzini.

  • La vita letteraria degli Shelley | L’Altrove

    La vita letteraria degli Shelley | L’Altrove

    È difficile oggi immaginare la letteratura inglese senza la poesia spesso citata di Shelley. Ma non è sempre stato così. Se non fosse stato per l’instancabile lavoro di Mary Shelley, seconda moglie di Percy, collaboratrice ed editrice postuma, “Ozymandias” il sonetto più conosciuto del poeta oggi sarebbe probabilmente dimenticato. Allo stesso modo, il lavoro di Mary, incluso il suo libro più famoso, Frankenstein , potrebbe non esistere nella sua forma attuale senza l’incoraggiamento di Percy. La potente miscela di collaborazione, competizione e caos che alimentava la vita letteraria condivisa degli Shelley era rara ma non singolare.
    Entrambe le opere affondano le loro radici non solo in gare letterarie, ma anche nel torbido matrimonio di sei anni che incorniciava il periodo più produttivo della carriera letteraria degli Shelley.

    Quando Percy scrisse Ozymandias, lui e Mary erano innamorati da quattro anni. Si incontrarono nel 1814 a casa del padre di Mary, il filosofo William Godwin, il cui impegno per quello che oggi potrebbe essere chiamato anarchismo impressionò profondamente il travagliato giovane poeta. Solo tre anni prima, Percy era stato espulso dall’Università di Oxford dopo aver scritto e distribuito un opuscolo intitolato The Necessity of Atheism, che si rifiutò di rinnegare o discutere con i funzionari universitari. Era ossessionato dall’audacia politica e dalla filosofia dei romantici di prima generazione come Godwin e Robert Southey, il poeta laureato inglese di lunga data. Come i suoi modelli di riferimento, Percy credeva che gli individui, piuttosto che le istituzioni come la chiesa o lo stato, dovessero determinare il loro destino. Nel 1813 espose le sue opinioni politiche in una poesia distribuita privatamente, Queen Mab (La regina Mab) ispirata alla posizione allora rivoluzionaria di Southey.

    Godwin era il capo di una grande famiglia mista – allevò cinque figli nati dalle sue due mogli – ed era vedovo della pensatrice femminista Mary Wollstonecraft, morta nel 1797. Aveva sperato che Percy potesse scavare nella fortuna della famiglia Shelley per sostenerlo come mecenate. Tuttavia, il ventiduenne Percy era caduto in disgrazia presso il suo aristocratico padre e aveva migliaia di sterline in debito. Era anche infatuato della figlia sedicenne di Godwin, Mary. Godwin ha cercato di bloccare la relazione in erba, ma la coppia ha ignorato le sue proteste ed è scappata in Europa. Godwin era devastato.

    La relazione della giovane coppia era tanto tossica quanto appassionata. Percy abbandonò Harriet Westbrook, sua moglie incinta da tre anni, per Mary, e Mary abbandonò le comodità di una vita convenzionale fuggendo essenzialmente con il suo amante sposato.

    Mary Wollstonecraft Shelley è, per questi e altri motivi, spesso presentata come una figura cruciale in termini di biografia di suo marito Percy Bysshe Shelley, e la sua influenza sul suo lavoro è ripetutamente riconosciuta. Tuttavia, le allusioni a Mary nelle poesie di Percy indicano che anche lei ha avuto un impatto sul suo lavoro al momento della scrittura. Il rapporto letterario di Mary con suo marito in questo modo viene spesso trascurato.

    Ad esempio, la volontà di Percy di pubblicare la poesia Laon e Cythna nel 1817, fu repressa a causa del suo argomento. È la poesia più lunga di Shelley e un’opera di violenza e rivoluzione alleviata da immagini più miti di amicizia, amore e affetti naturali. Questa poesia si apre con versi indirizzati a Mary. In questa dedizione, Percy considera la sua amante come uno spirito affine.

    Percy loda la capacità di Mary di alimentare la sua creatività con la sua saggezza, rende omaggio alla sua libertà, alla sua integrità, alla sua capacità di scoppiare e lacerare la catena mortale / della consuetudine. Mary è intellettualmente aperta e liberale; lei è essenzialmente libera, e quindi rifiuta la tirannia nella società che Percy detestava.

    Un impegno verso convinzioni radicali stava emergendo negli scritti di Mary nel 1817, e si era sempre riflesso nella sua educazione (l’ombra dei suoi genitori William Godwin e Mary Wollstonecraft), e nella sua coraggiosa decisione di fuggire con Percy nel continente quando era ancora sposato.
    L’immagine della Primavera che cade sul cuore invernale di Percy introduce Mary come fonte di rinnovamento per la mente del poeta: questo è il suo effetto sulla sua creatività.
    Tuttavia, Percy in seguito fece precedere la sua poesia La Strega di Atlante (composta nel 1820) con versi intitolati “A Mary (sulla sua opposizione alla seguente poesia, in quanto non conteneva alcun interesse umano)”. Ciò dimostra la capacità di Mary di far valere le sue opinioni letterarie; è una “donna difficile”, non una musa compiacente all’autorità del poeta maschio. Le rappresentazioni scritte di Percy si collegano alle sue preoccupazioni letterarie come scrittore e pensatore, perché anche lei è una scrittrice e una pensatrice. Le prefazioni in versi a Laon e Cythna e La strega di Atlas dimostrano lo stretto rapporto intellettuale condiviso dagli Shelley; la loro interazione dipendeva da scambi reciproci creativi.

    Gli Shelley avevano un’inclinazione per la scrittura della prefazione come sforzo collaborativo. Percy scrisse la famosa prefazione al Frankenstein di Mary e la prefazione per il loro tour congiunto History of a Six Weeks’ Tour (di cui Mary era l’autore principale). Dopo la morte di Percy, Mary fece precedere le pubblicazioni postume del marito con il suo commento. In queste note non ha paura di lodare le “belle effusioni” trascurate dallo stesso Percy: la
    concezione dell’amore di Shelley era esaltata, coinvolgente, alleata a tutto ciò che c’è di più puro e nobile nella nostra natura, e riscaldata da una passione sincera; tale come appare quando gli diede voce in versi. Eppure di solito era così contrario ad esprimere questi sentimenti, tranne quando altamente idealizzati; e molte delle sue più belle effusioni le aveva messe da parte, incompiute, e non le avevo mai viste finché non l’avevo perso.
    Mary continua spiegando che Percy avrebbe scartato poesie come Rosalind e Helen, se non lo avesse “esortato a completarli”. Questi estratti indicano come Mary agisca come una (difficile) guida poetica per Percy e come modelli la sua scrittura nel corso del proprio sviluppo intellettuale dal loro primo incontro nel 1814 fino alla sua morte nel 1822.

    Gli Shelley divennero stretti collaboratori, guidando ciascuno altro intellettualmente, producendo la scrittura più eccezionale.

  • Recensione: “Finché Dio ci vede” di Emanuel Carnevali | L’Altrove

    Recensione: “Finché Dio ci vede” di Emanuel Carnevali | L’Altrove

    Negli ultimi anni il nome di Emanuel Carnevali è stato oggetto di una rinnovata e singolare attenzione. Poeta di culto, oserei dire poeta per poeti, rimasto nell’oblio per molti anni dopo la morte, riemerse negli anni ’70 grazie alla sorellastra che ne curò una summa per Adelphi. Il volume conteneva Il primo dio, un’autobiografia romanzata, un’ampia selezione di poesie edite, articoli e testimonianze, rintracciate sulle riviste americane. La singolarità di Carnevali risiede proprio in questo, nell’essere un italiano che si scopre poeta in America e decide di adottare quella lingua al posto di quella d’origine, una peculiarità che lo rende vicino e lontano allo stesso tempo.

    Fra le pubblicazioni più interessanti, oltre alla già citata di Adelphi, negli ultimi sei anni troviamo quelle di D Editore con i Racconti ritrovati e una versione “integrale” de Il primo dio; quella di ReaderForBlind con L’ultimo maledetto, la quale comprende il romanzo, racconti e lettere; e quella delle Edizioni Ares, Finchè Dio ci vede, poesie edite e inedite.

    Quest’ultima raccoglie una selezione di poesie di Carnevali (alcune fino ad oggi inedite), tradotte dal poeta Daniele Gigli. Questa raccolta rappresenta, credo, il migliore approccio al Carnevali poeta; lontano dalla stucchevole nomea di poeta maledetto, avvolge il lettore nell’atmosfera viva di Carnevali, ribadendo un concetto che nel tempo mi sembra sempre più vero: per tradurre poesia occorre un poeta. E a volte nemmeno questo basta. Ci vuole il poeta giusto.

    Da queste poesie emerge l’anima dell’”uomo sempre di fretta”, la spasmodica voglia di vivere, di recuperare il tempo perduto in inutili faccende per consacrarlo alla poesia. Nel leggere le sue poesie si ha davvero l’impressione che Carnevali sia nato ieri, sembrano le parole di qualcuno che vede il mondo per la prima volta, che sente per la prima volta; c’è una novità nella sua scrittura che travalica lo stile, è una novità dell’uomo. Certo, c’è il nuovo mondo, c’è New York in tutta la sua mostruosa novità rispetto all’Italia da cui proviene, ma è come se il poeta nascesse insieme a quel mondo, nello stesso istante. C’è la società contemporanea in tutto il suo anonimato, le brulicanti masse blu-nere-grigie che corrono verso lavori anonimi, ma allo stesso tempo c’è la tensione verso quel mondo, la volontà di farne parte felicemente, ingenuamente. E la sua poesia trasmette proprio questo, un raro senso di verità. Ecco, quando si supera lo scoglio dell’aspra critica, della rabbia inconfessata, resta un Carnevali nudo pronto a sacrificarsi, a piangere perfino, pur di essere accolto. E in fondo del maledetto non ha poi molto: Carnevali lotta con tutte le armi a sua disposizione (le parole) contro quel mondo che continua a rigettarlo. Il mondo butta fuori a calci il giovane Emanuel, e lui immancabilmente rientra dalla finestra.

    Non che qualcuno capirà mai davvero (traduzione di Daniele Gigli)

    Non che qualcuno capirà mai davvero
    (io davvero capisco?)
    ma
    guarda qui, sono un grumo di carne malfatta
    che
    per tutta la nostra bruttezza ha sofferto
    che
    da ogni sogno di perfezione fu
    illuminata.
    Ora sto e starò su finché vivo
    gridando!
    Forse voi che dormite
    vi sveglierete per un momento
    forse la morte la finirà
    di regnare così dannatamente
    pacificamente
    tra voi,
    un momento.

    A cura di Valerio Ragazzini.

     

    L’AUTORE

    Nato a Firenze nel 1897, Emanuel Carnevali è considerato uno dei più grandi scrittori statunitensi della prima metà del ‘900. Dopo un’infanzia difficile, passata tra cupi collegi e genitori malati, emigra negli Stati Uniti all’età di soli sedici anni. Pur vivendo quasi in miseria, passando da un lavoro all’altro, frequentando prostitute e malviventi, riuscì a partecipare, da straniero, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana dell’epoca. Stringerà amicizia con diversi poeti e scrittori statunitensi, tra cui Ezra Pound, William Carlos Williams e Sherwood Anderson, che si ispirerà alla sua vita per il racconto Italian Poet in America (1941).
    Muore a Bologna nel 1942 dopo aver passato vent’anni tra ospedali e pensioni a causa di una terribile encefalite letargica.

  • Recensione: “Divenire” di Valentina Marzulli | L’Altrove

    Recensione: “Divenire” di Valentina Marzulli | L’Altrove

    Divenire di Valentina Marzulli (Eretica Edizioni, 2023) cattura l’energia ispiratrice dello svolgimento del tempo intorno al passaggio esistenziale del mutamento.

    La poetessa intuisce nel divenire qualcosa che diviene, nel movimento interpretativo della realtà, che si manifesta e si dissolve nelle contraddizioni emotive, non disperde l’essenza originaria dell’evoluzione passionale ma la rinnova. La visione ontologica di Valentina Marzulli accoglie la molteplicità della vita, dilata il contenuto incondizionato dell’amore, include la progressiva conversione attraverso l’illusoria provenienza delle aspettative e la concreta destinazione dell’assenza, realizza l’incessante necessità di presagire le espressioni del desiderio e la sospensione del sentimento, di riconoscere, nelle relazioni, l’intensità del coinvolgimento e di dare un significato profondo al qualcos’altro che anima la percezione sensuale della carnalità e la coscienza sincera della spiritualità. Valentina Marzulli concretizza il simbolico richiamo del passato nella concezione dialettica delle vibrazioni evocative del cuore, alterna l’indeterminatezza del silenzio con la risolutezza delle parole, scrive versi incisi nel carattere coraggioso ed efficace di una poetica che adotta il sentire in tutte le sue carismatiche declinazioni.
    Divulga la sconfinata estensione di ogni orizzonte sensitivo attraverso la viscerale, impulsiva e ineluttabile prospettiva dei ricordi, distende la deviazione impetuosa degli affetti nei provocanti intrecci lirici e romantici dell’anima, assapora l’inquieto profumo della malinconia, esplora l’intonazione suggestiva delle divagazioni autobiografiche, affianca alla riflessione sul cambiamento la conservazione autentica della speranza.

    Divenire svolge il suo insegnamento poetico intorno alla discordanza irrequieta degli interrogativi, evidenzia lo stridore dei contrasti, mostra il turbamento della fragilità, pone l’accento sui discorsi interrotti e sospesi, consuma la dolcezza dei baci e il fascino ineluttabile degli incontri, l’impronta infinita e imprevista del destino, oppone all’oscurità del vuoto la limpidezza dei giorni, mantiene la lacerazione delle ferite interiori, trattiene l’equilibrio della verità per lenire il dolore e saldare i margini di ogni guarigione. “Divenire” è tramutare le sensazioni provate e vissute lungo lo spostamento introspettivo del pensiero, è il valico che collega la prospettiva dinamica della trasformazione alla libertà di affidarsi alla vita e al suo sincero entusiasmo, sostiene la proiezione della consapevolezza.

    Valentina Marzulli invita il lettore a prestare attenzione e cura alle occasioni e a credere alla straordinaria forza delle corrispondenze, a imparare a sorprendersi e a svincolarsi serenamente da tutto ciò che non è più un giovamento e limita il nostro essere, a seguire l’indicazione positiva delle decisioni, a ricevere tutto ciò che accade e allontanare tutto ciò che vaga. La poesia di Valentina Marzulli approccia la metamorfosi dell’anima, fa spazio all’inarrestabile ribaltamento delle situazioni, nella dimensione seducente e sconosciuta del diventare altro, fluisce naturalmente nel luogo simbolico del riscatto e della serenità che protegge l’identità sacra dell’amore, culla l’immutabilità del bene e tutto quello che resta.

    Alcune poesie da Divenire:

    IL SUO VUOTO

    Il suo vuoto
    aveva il colore
    di tutti gli occhi malati,
    delle mani sgarbate,
    del suo corpo
    per sempre marchiato.
    Il suo vuoto
    era pieno di sale,
    e di terra,
    e di strappi,
    e di piccoli pezzi di cuore.


    STATO DI NATURA

    Come acqua scorro,
    turbolenta, tra i miei pensieri.
    Come un sasso affondo,
    tutta intera, tra le mie voglie.
    Come un naufrago mi abbandono,
    miserabile, ai miei tormenti.


    CONTRASTI

    Bianco.
    L’orlo
    del vestito
    sul ginocchio.
    Il seme
    che si sparge
    e cola piano.
    Il cielo
    che risplende
    e, anche oggi,
    scorre invano.
    È nero.


    AUT AUT

    Vedere, non guardare.
    Volere, non toccare.
    Sentire, non pensare.
    Capire, non parlare.
    Amare.


    UTOPIE

    E domani amore,
    domani tu incontrami.
    Lasciamo una volta,
    che la vita poi scorra,
    che la Luna rinasca,
    che il destino si compia,
    che nei tuoi baci io muoia.

    A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

    L’AUTRICE

    Valentina Marzulli nasce a Taranto nel 1990. Ingegnere civile, vive ormai stabilmente in Germania, dove si è dedicata per diversi anni, nell’ambito del suo dottorato di ricerca, allo studio di materiali lunari. Da sempre attratta da tutto ciò che è straniero, adora scrivere in varie lingue. Ama il mare del Sud tanto quanto le fitte foreste della Baviera. Divenire è la sua prima raccolta poetica.

  • Recensione: “Di*vento” di Sonia Petroni | L’Altrove

    Recensione: “Di*vento” di Sonia Petroni | L’Altrove

    Di*vento di Sonia Petroni (Eretica Edizioni, 2023) eleva la saggia persuasione del tempo umano in relazione all’infinito, consuma il primitivo desiderio del silenzio in un patrimonio d’armonia e di pienezza emotiva, nella riflessione di una sorgente formata nel linguaggio simbolico della natura incontaminata e rivelatrice d’ispirazione.

    Sonia Petroni concede, all’immanente qualità dei suoi immacolati versi, il prezioso e raffinato intuito meditativo per trascrivere la direzione della transitorietà esistenziale e indicare la successione delle presenze e la tessitura delle assenze lungo le stagioni itineranti del sentire. Accoglie la dimensione contemplativa del pensiero nella compassione, nella capacità di alleggerire il dolore attraverso la comunanza cognitiva della coscienza. L’autrice modula il suo respiro poetico con l’intonazione essenziale di una esperienza interiore, concentrando l’appassionato perimetro espressivo nell’inesauribile, sapiente equilibrio tra il nutrimento lirico del naturalismo e il vincolo della materia, declinando il solco dei versi nella percezione del percorso vitale e nella sensazione dello smarrimento e del rinvenimento. Seduce l’autentico miracolo della poesia con la disposizione a cogliere in ogni disposizione d’animo la dimensione interpretativa del molteplice, a ritrovare, nella diffusione del battito in relazione ricorrente con la natura, il richiamo della realtà come applicazione della proiezione all’ascolto. L’analisi costante e spontanea del mistero umano compone il mosaico della conversazione intorno alla frammentaria erosione dell’esistenza, permette di cogliere il flusso di connessione e di attenzione ai doni della vita, aggrappati alla devozione della luce.

    La poesia di Sonia Petroni intensifica la corrispondenza dell’incanto, l’improvvisa e imprevedibile risonanza dell’orizzonte emotivo, commuove l’inclinazione all’applicazione letteraria della spiritualità in ogni sentimento, abitato dalla fiduciosa generosità di una permanenza nella vibrazione della meraviglia, dialoga intorno alla benedizione di una preghiera invisibile che attende di ricevere l’immensità delle promesse avvolte nelle radici della terra. “Di*vento” racconta il territorio dell’identità, nel confine tra la timorosa solitudine delle domande e la condivisione silenziosa delle risposte, illustra l’inviolabile requisito stilistico di inaugurare il rifugio intimista tra noi e il significato dei valori nella sfera sensibile, riempie le pagine con una declinazione scultorea delle parole, nell’intesa confidente dell’energia divinatoria della consapevolezza, nella compiutezza della prospettiva profetica che gravita intorno a noi.

    Sonia Petroni lascia intatta la località tumultuosa del buio per aggirare il tragitto iniziatico della sofferenza, immerge nella ferita del dolore l’incisione del riflesso luminoso, dissolve il raccoglimento di ogni vincolo verso la benevola meditazione, rinnova la cadenza di una conversione panteistica che assimila l’apertura, intensamente viva, di ogni luogo a essere definito un luogo dell’anima. Sonia Petroni alberga con la sua poesia l’entità indivisibile suggerita dalla congiunzione tra il corpo e la mente, sussurrata dalla delicatezza di un alito di vento che accarezza l’insegnamento della voce nuda, trattiene il torpore della sacralità, conforta la religiosità dell’abbraccio universale nel paesaggio rapito dallo sguardo primordiale.

    Ecco di seguito alcuni testi tratti dalla raccolta:

    Il dolore come inizio
    la luce mi attraversa
    nulla inizia né finisce in me.
    Accade.
    Non sono l’ombra sul pavimento
    né il muro che s’accende.
    Sono il vetro che lascia entrare
    la misericordia del sole.


    Sentire le cose senza ragione.
    Arrivare dove loro sono ed io non ancora.


    Posso essere ferma come gli alberi
    che non è immobilità, ma movimento fisso.
    Lo vedo nei riccioli dei rami, nei miei capelli.
    Accogliere è restare anche per il fuoco.
    Le radici continueranno a cercare.


    La poesia è il mio posto luminoso
    come può esserlo una fiamma protetta dal vento.
    Il raggio trova aperture e si posa
    dritto
    nell’oscurità della caverna.
    Tra il nero e la luce
    eccomi
    essenziale
    a brillare come pietra scheggiata.


    La felicità è come neve tra i capelli
    l’azzurro ne detta la fine
    ma il bianco resta a contornare le attese
    la mimosa zavorra i sogni
    l’ulivo ispessisce le forze tra i campi
    pettinati di fragilità.


    Radunare le radici ed i rami
    farsi uliveto e fiori di mandorlo
    per i nidi e poi per i voli
    per il Silenzio che disperde i rumori
    richiamando a sé le erbe, anche quelle secche
    i legni spezzati
    i segreti degli iris e le verità delle foglie verdi.
    Discende nel cadere dei petali
    per farti dire la tua prima parola
    dopo aver detto la sua.


    Ho fiducia nella paglia
    su questo accenno di strada vegetale
    l’invito al nido per il nascere
    tra il verde delle ere, dei passi, i crepitii.

    Finisce la mia assenza
    dentro l’intreccio d’un pezzo di rovo
    un gioiello luminoso, carte colorate
    resti presi per gusto, per gioco.

    Tra il dare ed il ricevere senza alcun debito
    ad uno ad uno si posa il mio essere qui.

    A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

    L’AUTRICE

    Sonia Petroni è nata a Roma nel 1977. Psicologa Psicoterapeuta vive a Bari dove svolge il suo lavoro privatamente. Dipinge, crea oggetti di design ed ama immensamente la natura da cui trae ispirazione. Il mare è suo padre adottivo. Gli ulivi suoi fratelli. Di*vento è il suo primo componimento in versi.

  • Recensione: “Il quinto tempo” di Paolo Parrini | L’Altrove

    Recensione: “Il quinto tempo” di Paolo Parrini | L’Altrove

    Il quinto tempo di Paolo Parrini (Samuele Editore, 2023) ammette il trascorrere del tempo come concezione ermeneutica dell’esistenza e modello interpretativo degli eventi, carichi di significati spirituali ed emotivi.

    La poesia di Paolo Parrini esamina la realtà, ne vive l’inquietudine e ne preannuncia la solitudine, esplora il mondo soprasensibile attraverso l’esperienza interiore di un dialogo che è sempre voce accesa e preghiera riconoscente alla vita e alla sua grande verità. I testi suggeriscono una riflessione intimista, seguono il pensiero umano delle infinite frantumazioni del sentire, raggiungono l’essenza dei ricordi, sostando nell’ascolto delle vibrazioni che ogni sentimento concede al suono prolungato e autentico della parola donatrice di senso. Paolo Parrini conserva la declinazione del ritratto esistenziale come una rappresentazione carica di estensione poetica, romantica e lucida, sottratta all’azzardo di svanire nel distacco dell’assenza, misura la consapevolezza della nostalgia nella proporzione delle eclissi relazionali, concentra l’inesauribile fonte d’ispirazione dal passato, nel patrimonio commovente della sincera affinità, tra l’intonazione del paesaggio e il rilievo dell’anima.

    Il quinto tempo varca la dimensione del divenire nella misura intuitiva e sensibile dei versi, presenta il dono delle immagini in continua trasformazione verso la natura molteplice dello spazio – tempo, illustra il tentativo di condividere la direzione dell’impercettibile, nel filo tangibile dello svelamento del vivere. Paolo Parrini rimuove la polvere intermittente dell’instabilità, conosce la revocabilità del conflitto spirituale, ricerca la congiuntura conseguente al passaggio del dolore, convive con la contingenza della percezione, scardina il legame di appartenenza tra le stagioni dell’essere e la cadenza ciclica delle apparenze, sconfina l’orizzonte dell’estetica dell’effimero, declina la destinazione della soggettività umana nell’etica cognitiva dello sradicamento. Allontana il vincolo dello smarrimento riscattando la naturalezza e la spontaneità dell’equilibrio con la natura e la corrispondenza degli affetti, cristallizza la visione della dissolvenza lungo l’instabilità affranta del dolore, orienta la consolazione taumaturgica dell’attesa e la resistenza costante della speranza.

    Il quinto tempo deduce la condizione metafisica della memoria come luogo della comprensione terrena e come tensione trascendente nella consistenza premurosa della maturità amorosa. La funzione elegiaca della poesia di Paolo Parrini forma l’unicità dell’uomo, scandisce le oscillazioni del cuore, plasma le contratture del presentimento freddo dell’indifferenza, attraversa la trasformazione di impulsi oscuri in slanci luminosi di desiderio e di promesse, esprime la distensione di ogni contemplazione, dichiara la saggezza nell’esitazione dell’imprevisto. Il cammino del poeta si discioglie nel selciato mutevole di ogni viaggio errante, nella contingenza delle dinamiche personali, scorge l’itinerario emblematico ed evocativo della dolcezza, incrocia la malinconia carismatica della perplessità. Paolo Parrini regala al lettore un’opera compiuta, elegante e delicata, ci insegna che cercare qualcosa dentro di sé significa sempre rinnovare la propria proiezione del mondo e di noi stessi, suggerisce di anteporre alla fugacità la continuità, come strumento di conoscenza che alimenta il fuoco dell’arte persuasiva.

    Alcune poesie dalla raccolta

    Non sempre occorre spiegare,
    a volte basta scegliere,
    un tavolo dimesso,
    il silenzio del mattino
    tra i fili bianchi dei capelli.
    Non sempre serve dire e fare,
    seduto a respirare caffè
    fermando il tempo
    e la morte.


    Potremmo esserci persi
    in quell’ora calda
    della sera, quando luglio
    tagliava il grano e la polvere
    era densa nell’aria.
    I covoni allineati con cura
    presagio d’un’altra nascita,
    d’un’altra primavera.


    In una foglia secca
    accartocciata sul viale
    spira la vita dell’albero
    che l’ha perduta.
    Muore piano questo sentire,
    come una pioggia stanca
    che bagna intermittente il verde.


    Grazie per il dono,
    per questo giorno freddo che scorre,
    il suono della radio in sottofondo,
    i brividi d’amore e di gelo.
    Tutto concorre al creato,
    alla casualità che si fa domanda.
    Niente passa senza ragione
    anche questa colazione solitaria,
    anche il cammino tra due ali
    di verde e d’asfalto.
    Grazie per averti riconosciuto
    per un istante
    nella melodia che sfuma
    e negli occhi umidi.
    Nella mano che si posa sul cuore
    e si commuove al battito.


    Altre voci spente
    come la tua
    per chi sente solo acqua
    che scorre forte
    è un mancamento,
    un passare dentro,
    un infinito.
    Sfiorare le tue ciglia,
    vederti finalmente aprire
    i petali tormentati
    e sbocciare.

    A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

    L’AUTORE

    Paolo Parrini è nato a Vinci nel 1964, si è diplomato in maturità scientifica ed è laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze. Vive e lavora a Castelfiorentino, in provincia di Firenze.
    Da sempre appassionato di lettura e scrittura, ha pubblicato diversi libri con le case editrici Pagine, Aletti, Ladolfi. Ha vinto numerosi premi letterari e ricevuto menzioni in vari concorsi.

  • Recensione: “Cronache dalle rovine” di Emiliano Cribari | L’Altrove

    Recensione: “Cronache dalle rovine” di Emiliano Cribari | L’Altrove

    Emiliano Cribari torna con una nuova raccolta dal titolo Cronache delle rovine pubblicata da Pequod per la collana Porto Sepolto di Luca Pizzolitto.

    In questo libro, il poeta camminatore ci accompagna in un percorso intenso, interiore, esplorando terre, luoghi, tradizioni, emozioni.

    Acquista Cronache dalle rovine di Emiliano Cribari

    In cronache delle rovine ci ritroviamo, dispersi e ritrovati. In caverne, cavità dell’io nascosto e taciuto, nel buio nero, scrive il poeta,
    un buio nero che ho che ho tradito
    in cui ho deciso di vivere solo
    al buio dei miei occhi sepolti
    due gelidi morti
    che ritornano al buio
    sono io la colpa di questa lunghissima
    notte
    buia

    E l’oscurità è presente, in questo chiudere gli occhi il bisogno di prendersi tempo o perdersi in tempo, in tempo per smarrirsi. Il fitto bosco accoglie, celando con sé il terrore, l’assurdo, lo stupore, la meraviglia. È possibile allora sentire suoni, sentire il fiabesco come un profumo di vero e stimolante piacere e sentire subito dopo la preoccupazione, l’infelicità del non aver mai vissuto concretamente, di trovarsi sempre con desideri inespressi e persi via via:

    cos’hanno
    questo buio più veloce
    questo vento quest’aria inavvertitamente
    gelata?
    cos’ha di preoccupante quest’autunno
    che ancora mi spaventa?
    eppure esulta
    nell’aria
    quest’ora partoriente del mattino
    poesia delle luci
    delle forme
    delle parole raschiate
    arcaiche
    poesia della materia di cui è fatto il visibile
    morirò pieno di desideri

    Qualche pagina dopo:

    […] ascolto i boschi unica immensa gioia della mia vita
    se resto qui con il pensiero
    faccio luce in tutto il mondo
    se non evado dalle felci
    se non sento il fondovalle ruggire e vomitare
    stavo scrivendo cose poetiche e mannare
    quando dal fitto delle querce
    è spuntato un cacciatore:
    «vestiti di rosso, ti stavo per sparare»

    Ecco, la poesia viene incontro: io scrivo poesie/per non tremare, scrive in seguito e poi: scrivere scrivere scrivere/senza troppo pensare/senza chiedermi il destino di tutte le parole. Ma è una scrittura non liberatoria o semplice da attuare. È più un doloroso impulso, arma di grande potere, la poesia è l’eco nel bosco: poeta per mancanza di attenzione.

    Tanti i nomi presenti nella raccolta, nomi di amici, di persone care ed amate, e c’è anche Emiliano. Sì, il poeta chiama più volte se stesso, scrive il suo nome ripetute volte come se fosse un mantra da ripetere per non scordarsi, si dice resta, resta.

    essere Emiliano è momentaneo
    essere forte essere lucido e intuitivo
    camminare è momentaneo
    essere e anche scrivere
    è momentaneo
    quali parole avrei dedotto
    da un viaggio a Diamante a Vrasi a Maierà
    da un pellegrinaggio a Verbicaro
    quali immensità avrei sottratto
    all’odore dell’erba dei prati di Estoul
    oltre i larici in giacenze di silenzio
    mi attrae l’idea di trasfondermi in un dittero
    qualunque
    in un insetto momentaneo e indifferente
    capace di fare senza scegliere
    mi attrae l’idea di non farmi intimorire dai concetti
    più di quanto accada con le cose
    uso la parola cose
    per distinguere le mie ossessioni
    la mia impermanenza
    dalla fragranza mattutina della primavera
    essere Emiliano è momentaneo e fallimentare
    mi attrae l’idea di distendermi in un bosco
    e di lasciarmi trafugare
    di essere un monito un’antireliquia
    (nato dopo un terremoto sono subito sfollato
    e vago)
    a chi mi chiede se respiro ancora
    io rispondo: abito in cielo
    ma non volo

    Respirare, scrivere, stupirsi e ringraziare sono i verbi che si incontriamo nel libro, che si ripetono più volte nei testi; verbi compiuti nell’incompiutezza che il poeta avverte. Cribari scrive in mezzo alle rovine, via via il libro si fa un racconto ed un epistolario, c’è l’urgenza di scrivere, riscrivere e scavare nell’essenziale.
    È un Emiliano che si mostra in tutto, tra il suo lasciarsi andare in queste inquietudini e il riemergere o il voler mischiarsi ad esse. Il poeta dunque trova posto? No, cammina, ripete, rimurgina, fotografa, scrive.

    Lettere all’Inquetudine termina la raccolta. È una senzione formata da una ventina di lettere ad I. che in questo caso altro non è che la personificazione dell’inquetudine.

    Cara I.,
    c’è qui un incaglio di nuvole scure. Gioia di luce
    scattante. Silenzio. Un sentiero scavato fra falesie
    distese di grano. Un’erranza di pecore e campane.
    Un filo spinato. Ci sono i pini acquattati fra la neb-
    bia ad annusare lucertole e pensieri. Ci sei.
    E.

    Con questo “Ci sei” E. sa che non può far a meno della sua I. forse vorrebbe anche, ma questa sensazione l’accompagnerà sempre, è diventata una compagna di viaggio. In questo autoritratto, dal poeta disegnato e scritto, resta la certezza di trovare anche la sua inquietudine.

    Nell’ultima lettera la risoluzione:

    Cara Inquietudine,
    ora so che la quiete non è il silenzio ma la disponibilità a lasciarsi andare.
    Emiliano

    Acquista Cronache dalle rovine di Emiliano Cribari

    L’AUTORE

    Emiliano Cribari
    Emiliano Cribari è poeta, fotografo, camminatore.
    Dal 1999 ha iniziato a sperimentare nel contesto di svariati ambiti artistici: dalla poesia al teatro, dalla fotografia all’audiovisivo.
    Parallelamente, ha maturato esperienze professionali anche nel campo dell’editoria e del giornalismo.
    Dal 2015 ha iniziato a sviluppare progetti fotografici di carattere personale, soprattutto su tematiche sociali.
    Nel 2019, come guida ambientale escursionistica, ha dato vita alle “camminate letterarie”, escursioni in ambienti naturali caratterizzate da letture poetiche.
    Ha pubblicato La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (AnimaMundi, 2020), Errante (AnimaMundi/emuse, 2022), Mar d’Appennino (Edizioni dei Cammini, 2022), Il valore dell’aria (EC, 2022) e I diari del libraio errante (EC, 2023). Ha inoltre curato il riadattamento in lingua italiana della raccolta di poesie La saggezza del condannato a morte e altre poesie di Mahmud Darwish (emuse, 2022).