Intervista a Guido Maria Grillo, tra parola e canto | L’Altrove
Intervista a Guido Maria Grillo, tra parola e canto | L’Altrove

Intervista a Guido Maria Grillo, tra parola e canto | L’Altrove

Guido Maria Grillo si colloca nel panorama della canzone d’autore italiana contemporanea come figura di particolare rilievo per l’approccio colto e consapevole alla dimensione poetica del cantautorato. Originario di Salerno, la sua formazione intellettuale si è nutrita di una doppia matrice: quella filosofica, culminata con una tesi di laurea dedicata a Fabrizio De André, e quella letteraria, radicata in una profonda frequentazione della poesia “maledetta” durante gli anni dell’adolescenza. Questa duplice educazione ha generato un artista capace di coniugare rigore speculativo e sensibilità lirica, traducendo in pratiche compositive una visione del mondo che affonda le proprie radici nella tradizione del pensiero critico europeo.

La pubblicazione nel 2017 del volume Questa nostra guerra – poesie e bozzetti per canzoni presso Les Flaneurs Edizioni rappresenta un momento di svolta nella sua produzione, segnando il passaggio da una pratica esclusivamente musicale a una dimensione più ampiamente letteraria. Questo ampliamento dell’orizzonte espressivo rivela una maturazione artistica che non si limita alla mera trasposizione di contenuti dalla pagina al palco, ma configura un territorio comune dove parola scritta e parola cantata si alimentano reciprocamente.

L’analisi del metodo compositivo di Grillo rivela una concezione organica del rapporto tra musica e poesia che si discosta dalle pratiche più comuni del cantautorato contemporaneo. Il suo approccio, che privilegia l’intuizione alla programmazione, la spontaneità al calcolo, si inscrive in una tradizione che risale ai trovatori medievali e trova nella modernità i suoi esiti più maturi nell’opera di autori come Jacques Brel o Leonard Cohen. La dichiarata preferenza per un punto di partenza musicale – “inizio dalla musica, le parole sono suoni che s’adagiano su di essa” – non deve tuttavia essere interpretata come subordinazione del testo al dato sonoro, bensì come ricerca di una sintesi superiore dove il significante verbale e quello musicale concorrono alla costruzione di un’unica architettura semantica.

Particolarmente significativa risulta la metafora strumentale applicata alla voce: “uso la voce come un qualsiasi strumento, le parole sono note con significati espliciti”. Questa concezione tradisce un’influenza della lezione deandreiana, ma anche una consapevolezza delle potenzialità fonetiche e ritmiche della lingua che richiama gli esperimenti della poesia sonora novecentesca. La parola diviene così simultaneamente veicolo di senso e materia acustica, in una tensione costante tra referenzialità e pura musicalità.

La posizione di Grillo rispetto alla poesia contemporanea e alle sue manifestazioni musicali rivela una visione aristocratica dell’arte che si pone in controtendenza rispetto alle dinamiche del mercato culturale attuale. La sua netta distinzione tra “poesia della strada” (trap, rap, urban) e poesia intesa come “qualcosa di elevato, straordinario” riflette un’adesione ai canoni estetici della tradizione alta, ma rischia al contempo di configurarsi come atteggiamento elitario che non tiene conto delle trasformazioni antropologiche in atto nella società contemporanea.

L’opera di Guido Maria Grillo si inserisce nel panorama del cantautorato italiano contemporaneo con una proposta che coniuga fedeltà alla tradizione e ricerca di autenticità espressiva. La sua concezione della canzone come forma d’arte autonoma, capace di veicolare contenuti poetici di alto livello, rappresenta un tentativo di resistenza alle logiche commerciali che tendono a impoverire il panorama musicale italiano.

Il cantautore rappresenta una voce significativa nel panorama della canzone d’autore italiana, portatore di una visione colta e consapevole.

Abbiamo avuto il piacere di conoscerlo, di fargli qualche domanda a cui ha gentilmente risposto. Ecco la nostra intervista:

Grazie ancora, Guido. Nei suoi testi si percepisce un’attenzione profonda alla parola, al ritmo, all’immagine: come nasce per lei una canzone? Parte dalla musica o dalla scrittura?

Il processo creativo da cui nascono le canzoni è, per me, sempre spontaneo e non calcolato. In genere, scaturisce dalle suggestioni del momento, dall’ascolto di qualcosa che mi rapisce in modo particolare o da una condizione emotiva che genera stupore o grande sofferenza. Nella maggior parte dei casi, inzio dalla musica, le parole sono suoni che s’adagiano su di essa e completano l’idea originaria. Uso la voce come un qualsiasi strumento, le parole sono note con significati espliciti.

Qual è il suo rapporto con la poesia? Ci sono poeti – del passato o del presente – che considera suoi interlocutori interiori?

La poesia è un’espressione che mi ha sempre affascinato, conducendomi perfino alla pubblicazione di un volumetto. In generale, non la separo dalla canzone, dunque dalla mia attitudine vocale e dalla musica. Si compenetrano, o almeno questo è quel che mi profiggo di ottenere. Ho trascorso l’adolescenza a leggere la poesia “maledetta” ed in quei mondi interiori, in quel pathos, quel dramma mi sono riconosciuto e cullato. Mi abitano e sono diventati la mia primaria forma espressiva.

Ha mai scritto versi che non fossero destinati alla musica? Li considera parte dello stesso processo creativo?

Nel 2017 ho pubblicato “Questa nostra guerra – poesie e bozzetti per canzoni” (Les Flaneurs Edizioni). Fu un flusso libero, scaturito dal’imbeccata di una persona che conosceva la mia musica e che ebbe l’incarico di curare una collana poetica per quella casa editrice. Mi offrì la possibilità di dedicarmi alla poesia “nuda” e di scoprire quanto , in fondo, mi piacesse.

Nel suo recente lavoro compare il dialetto napoletano, usato in modo lirico e struggente. Com’è nato il desiderio di scrivere in dialetto? Cosa le permette di dire o evocare che l’italiano non riesce a esprimere?

Ad un certo punto del mio percorso, mi sono sentito disorientato, davanti alla necessità di trovare nuove strade e nuovi stimuli. Mi misi a ragionare sulla musica che avevo intorno e giunsi alla conclusione che gran parte di essa fosse derivativa, impersonale, omologata. Mi chiesi, dunque, come evitare di cadere nella medesima trappola ed andai alla ricerca della mia identità, di ciò che potesse essere solo mio, riconoscibile e personale. Conclusi che l’unica cosa in grado di renderci davvero unici sia ciò da cui proveniamo, la nostra origine, le nostre radici. Così, in questo processo a ritroso, mai passatista, retorico o conservatore, mi trovai a maneggaire il dialetto partenopeo (io sono di Salerno) e mi si aprì un mondo meraviglioso e nuovo. Il napoletano è lingua d’arte, di musica, teatro, ha una Potenza ineguagliabile, è poetico, musicale, drammatico, romantico. Il continuo dialogo tra dialetto ed italiano, nelle mie canzoni, è continuo dialogo tra tradizione e contemporaneità, tra le mie radici e la mia formazione.

Crede che oggi ci sia spazio nella musica per un uso consapevole e poetico della parola, o avverte un rischio di semplificazione, di consumo veloce?

Bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa sia poesia. Secondo alcuni, la musica trap, il rap, la urban rapresentano una forma di poesia, definita “della strada”. Io non condivido, non è ascrivibile al mondo poetico cui mi riferisco, sono abituato a pensare alla poesia come a qualcosa di elevato, straordinario, nel senso letterale del termine. Sono abituato a pensare alla poesia come Arte e l’Arte è altrove. Nella musica di questo tempo trovo molto slang giovanile, quotidianità espressiva, ma poco lirismo. Semplificazione, omologazione, conformismo sono caratteri salienti dellla società di questo tempo e la musica di largo consumo, in quanto forma espressiva della contemporaneità, non fa eccezione.

Ha dedicato la sua tesi a Fabrizio De André. In che modo questa figura ha influenzato il suo modo di pensare la canzone come forma d’arte?

De Andrè è stato un modello formidabile, prima ancora dal punto di vista intellettuale e politico, certamente, poi, anche sul piano artistico. La dimostrazione di ciò risiede nalla mia scelta di dedicargli una tesi di laurea in Filosofia, un compendio di riflessioni e studi di carattere essensialmente sociologico, politico ed intellettuale. Era un uomo dotato di intelligenza sensibilità e lirismo assolutamente fuori dal comune.

Nella sua formazione musicale e poetica, quanto contano le letture e quanto gli ascolti? Vede un confine tra le due cose o un territorio comune?

In ambito musicale, contano certamente di più gli ascolti. Sono un gran lettore ma, ormai da molti anni, prediligo letture di natura saggistica, sociologiche, filosofiche, politiche ed economiche. Quando sono in cerca di ispirazione, mi dedico all’ascolto di musica, cercando in essa quel che mi occorre, poesia, lirismo,drammaticità, coinvolgimento emotivo.

C’è una parola che sente di portare con sé da sempre, che ritorna, che la guida?

Ce ne sono tante, tutte, comunque, riconducibili ai medesimi mondi interiori e, per me, decisamente familiari. Se dovessi sceglierne una, probabilmente, direi “addio”. L’uomo è vittima della condanna degli addii ed ognuno di essi porta via con sè un parte di vita. E’ come se la fine della nostra esistenza giunga nel momento in cui si esaurisca il monte di addii di cui abbiamo potuto disporre nel corso della vita. Come se cadessero, uno alla volta, come petali da un fiore, fino all’ultimo. Ogni addio è definitivo, è un petalo che cade, perchè, anche quando un rapporto personale ricomincia all’indomani di un addio, nulla più è uguale a prima, è un nuovo petalo ed un potenziale nuovo addio. Mi riferisco ad ogni tipo di rapporto, ovviamente, anche a quelli tra genitori e figli, probabilmente I petali più resistenti e, pertanto, al distacco, più dolorosi.

Infine: qual è, secondo lei, il ruolo della poesia – e della parola cantata – nel mondo contemporaneo?

È un ruolo salvifico eppure marginale. Intendo dire che lo spazio poetico, ed uso questo termine in senso molto lato, nella musica di largo consumo è assolutamente risibile. Chi, come me, ne ha bisogno, riesce ancora ad intravederlo tra le pieghe delle canzoni di qualche grande artista, ma il suo effetto è salvifico quanto inutile. Sembra un ossimoro ma non lo è. E’ inutile nel senso letterale, inadatto all’incedere del reale, superfluo alle evite cui siamo costretti. La Bellezza è l’anello rotto nella catena dell’utile. saper riconoscerla ci rende vivi e consapevoli ma non ci libera da solitudini e vulnerabilità.

La foto dell’artista è stata scattata da Jacopo Lorenzo Emiliani.

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