Komm, reden wir zusammen, wer redet ist nicht tot.
“Vieni, parliamo, chi parla non è morto”.
Nel vasto e a volte solitario firmamento della poesia novecentesca, esistono incontri che non si consumano in presenza, ma che risuonano come echi segreti tra lingue diverse, in corrispondenze mai avvenute ma potenzialmente possibili. È il caso del legame ideale, e in parte postumo, tra Cristina Campo (1923–1977) e Alejandra Pizarnik (1936–1972): due poete apparentemente lontane per lingua, cultura e geografia, ma unite da una medesima tensione verso l’assoluto, da una concezione sacrale della parola e da un’irriducibile vocazione alla marginalità.
Entrambe escluse, per scelta o per destino, dai circuiti ufficiali della letteratura del loro tempo, Campo e Pizarnik hanno edificato un’opera che è insieme diario esistenziale e liturgia segreta, spingendo la parola poetica fino al suo limite estremo: il silenzio. Questo saggio intende esplorare criticamente le affinità profonde tra le due autrici, indagando non soltanto le convergenze tematiche e stilistiche, ma anche il modo in cui esse hanno interrogato — in forme diverse ma convergenti — la possibilità della poesia come atto di purezza, esilio e salvezza.
Cristina Campo: l’etica dell’invisibile
Nata a Bologna nel 1923 come Vittoria Guerrini, Cristina Campo fu poeta traduttrice, saggista e mistica laica. L’intera sua produzione, esigua in quantità ma vertiginosa in densità, è attraversata da una ricerca ossessiva di perfezione formale e spirituale. Campo concepiva la poesia come un’offerta, un atto sacrale che non poteva tollerare la banalità dell’espressione corrente. Non a caso, nella sua attività di traduttrice privilegiò testi dotati di una carica iniziatica o religiosa (da Simone Weil a John Donne, da Emily Dickinson a Hugo von Hofmannsthal), proiettando su di essi la sua sensibilità metafisica. La raccolta Passo d’addio (1956) e le poesie successive, disseminate in riviste e poi riunite postume, testimoniano una poetica della rarefazione, dove la parola tende a farsi emblema, icona, cifra dell’ineffabile.
Nel saggio Gli imperdonabili (ora in Sotto falso nome, 1991), Campo celebra quei poeti “imperdonabili” che hanno osato vivere la letteratura come destino assoluto, come legge interiore non negoziabile. A questa categoria appartiene anche Alejandra Pizarnik, che Campo non conobbe direttamente, ma che avrebbe potuto riconoscere come una sorella segreta. L’”imperdonabilità” di Pizarnik — la sua rivolta silenziosa, la sua scrittura come corpo martoriato — riecheggia profondamente la visione campiana del poeta come essere votato a una missione inattingibile, talora autodistruttiva.
Alejandra Pizarnik: una lingua ferita
Alejandra Pizarnik, nata a Buenos Aires nel 1936 da una famiglia ebrea di origine russa, è una delle voci più intense e disperate della poesia del secondo Novecento ispanoamericano. La sua scrittura — come quella di Campo — è attraversata da un’urgenza spirituale, ma declinata nella forma del dissidio, dell’angoscia esistenziale, del corpo che si fa luogo del trauma. L’opera di Pizarnik, da La extracción de la piedra de locura (1968) a El infierno musical (1971), è costruita come un rituale di scarnificazione, una discesa negli abissi del sé che interroga la possibilità della parola di redimere o almeno nominare il dolore.
Al centro della sua poetica vi è l’infanzia perduta, l’impossibilità della comunicazione, la fascinazione per la morte e il silenzio. In questo senso, Pizarnik è una poetessa campiana avant la lettre, o in absentia: anch’ella vede nella parola un sacrario, e nella poesia una cerimonia estrema, in cui il soggetto si dissolve per lasciare spazio a una voce altra, a un’invocazione che non cerca risposta, ma verità.
La tradizione simbolista, surrealista e mistica confluisce in Pizarnik in una forma tutta personale, dove il lirismo si combina con una violenta lucidità psicanalitica. Campo avrebbe amato, o quantomeno riconosciuto, questa tensione estrema, che non si concede alla facile confessione ma cerca, come in una liturgia negativa, la salvezza nel vuoto.
Le affinità poetiche: silenzio, esilio, vertigine
Se si scorrono le poesie di Campo e di Pizarnik, emerge una costellazione di motivi condivisi, che costituiscono non tanto una poetica comune quanto una comune condizione ontologica: il silenzio come origine e fine della parola; l’esilio come forma privilegiata di conoscenza; la vertigine come modalità di visione.
Il silenzio, in particolare, è per entrambe una categoria metafisica. Campo lo descrive come il “custode” dell’Assoluto, l’elemento senza il quale nessuna vera parola può nascere. La sua poesia è fatta di sussurri, di invocazioni trattenute, di immagini che si dissolvono nell’evanescenza. Anche Pizarnik fa del silenzio il centro magnetico della sua scrittura: nei suoi versi il silenzio non è assenza ma presenza terrificante, buco nero che attrae e distrugge. Come scrive in una delle sue prosas poéticas, “el silencio es la más perfecta expresión del horror”.
L’esilio, poi, è il destino che entrambe abbracciano: Campo si ritira volontariamente dalla scena culturale italiana, rifiutando compromessi, mentre Pizarnik vive il proprio corpo, la propria sessualità e la propria lingua come territori stranianti, sempre in bilico tra appartenenza e rigetto. Per entrambe la marginalità è una forma di fedeltà: all’infanzia, all’invisibile, alla vocazione poetica.
Infine, la vertigine è forse la cifra più segreta della loro scrittura. Vertigine mistica per Campo, che contempla l’oltre attraverso la fiamma della liturgia; vertigine psichica per Pizarnik, che si spinge fino ai limiti della sanità mentale. In entrambe, tuttavia, la poesia nasce come risposta a un trauma originario — non sempre nominabile — e si configura come un tentativo di dare forma all’informe.
Una corrispondenza immaginaria: Campo lettrice di Pizarnik
Non esistono prove documentarie che Campo abbia letto Pizarnik o viceversa. Tuttavia, vi sono elementi che consentono di immaginare una “corrispondenza d’anima” tra le due, fondata su letture condivise (Rilke, Dickinson, Rimbaud), su un medesimo rigore stilistico e su una comune diffidenza verso l’esibizione autobiografica. Entrambe, pur diversamente, conoscono la lezione del simbolismo e del modernismo europeo, e la rielaborano in chiave personale, spingendosi oltre i limiti della comunicazione poetica convenzionale.
Essere poeti significa appartenere alla patria della lingua, alla religione della parola, alla famiglia dei morti meravigliosi e severi. […] Si è sorvegliati ovunque, da una corte invisibile più dura di quella di Bisanzio. (Lettera, gennaio 1965).
È interessante notare che Pizarnik soggiornò a lungo a Parigi (1960–64), dove frequentò intellettuali francesi e latinoamericani e tradusse poeti simbolisti e surrealisti: ambienti in cui la voce di Campo, pur assente, avrebbe potuto idealmente risuonare. D’altra parte, Campo fu lettrice attenta delle scritture mistiche e delle poetesse marginali (tra cui la Dickinson, la Weil, la Szymborska), in cui cercava figure di sorellanza spirituale. L’una e l’altra, dunque, si cercavano — forse inconsapevolmente — nello specchio della parola.
Vorrei vedere tutte queste scintille bruciare nella durata, nella continuità del Suo fuoco. […] Bisogna rimanere al proprio posto, seguire un’idea fino in fondo, collegarla a tante altre per riportarla a se stessa ecc.
(Lettera, 22 febbraio 1963).
Nel frattempo, poiché con mio rammarico, non posso versarmi in questa bustina di tè al gelsomino e siccome Lei non accetta che tè e versi, vi verserò dei versi. […] Sono dei versi giovanili – non li mostri a nessuno.
(Lettera, inizio 1964).
Corpo e ferita: l’etica della vulnerabilità
Un ulteriore punto di contatto riguarda il rapporto con il corpo e la ferita. Campo, fragile di salute sin dall’infanzia, fece della malattia una condizione spirituale, un varco verso l’altrove. Il corpo, nei suoi testi, è spesso evanescente, angelico, come se già appartenesse a un’altra dimensione. Pizarnik, al contrario, mette in scena un corpo dilaniato, pulsante, esposto alla violenza del desiderio e della morte. Tuttavia, entrambe condividono un’etica della vulnerabilità: la ferita non è vergogna, ma cifra di autenticità. La poesia nasce da lì, da quella lacerazione che non si può suturare, ma solo cantare.
La Sua presenza è causa di ogni sorta di fenomeni inquietanti. […] ScriverLe produce delle specie di cortocircuiti, e questo non è una metafora. […] Un campanello ha cominciato a suonare da solo nel corridoio.
(Lettera, gennaio/febbraio 1963)
Questa vulnerabilità si traduce anche in una scelta linguistica: sobria, selettiva, essenziale. Campo lavora di sottrazione, riduce la parola a geroglifico; Pizarnik implode il linguaggio, lo frantuma in segmenti lirici che diventano icone della mancanza. In entrambe, il linguaggio è ferito e insieme salvifico.
Due voci in attesa
Cristina Campo e Alejandra Pizarnik non si sono mai incontrate, ma hanno percorso sentieri affini: nel culto dell’alterità, nella ricerca di una parola sacra, nella dedizione a una poesia come forma di resistenza interiore. Se Campo tende verso l’alto, verso il cielo di una perfezione inattingibile, Pizarnik scende nell’abisso dell’anima, ma entrambe abitano lo stesso spazio liminale: quello tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il non detto, tra la vita e la soglia della morte. In questo senso, sono sorelle nell’ombra, custodi di un segreto che si può solo sussurrare.
Nell’epoca della comunicazione totalizzante, dell’esibizione costante, le loro voci restano come moniti silenziosi: ci ricordano che la poesia non è parola in più, ma parola necessaria; non confessione, ma offerta; non rumore, ma ascolto. Ed è proprio nel reciproco ascolto, anche a distanza, che queste due grandi poetesse continuano a parlarsi — e a parlarci.
Nulla di grave può toccare il centro di questo invincibile silenzio (“un rumore di lillà che si spezza”).
(Lettera, ottobre 1963)