Poesie ritrovate

Poesie ritrovate: Nelo Risi | L’Altrove

Tra le voci più appartate e coerenti della poesia italiana del secondo Novecento, Nelo Risi (1920–2015) occupa un posto di rilievo per la sobrietà del dettato, la densità morale del suo sguardo e la capacità di elaborare un modello espressivo che si è mantenuto fedele a se stesso pur attraversando fasi storiche, tensioni culturali e crisi linguistiche profonde. Nato a Milano in un contesto intellettuale colto e borghese, fratello minore del più noto regista Dino Risi, Nelo fu poeta, traduttore, regista e documentarista, e in ciascuno di questi ambiti esercitò un’attenzione formale severa e un’etica dello sguardo che si riflettono in modo esemplare nella sua opera poetica.

Il profilo poetico di Risi si forma a partire dagli anni Cinquanta, in un contesto che vede l’egemonia delle poetiche neorealistiche da un lato e il ritorno al “poetico” di matrice ermetica dall’altro. In questa frattura, Risi elabora una sua via personale: la scelta di una lingua “minore” nel senso deleuziano del termine, vale a dire laterale, resistente, antiretorica. La sua parola poetica si costruisce per sottrazione, come pratica conoscitiva che rifiuta l’orpello e l’eleganza fine a se stessa, scegliendo invece la concretezza, l’essenzialità, il tono medio. Lontano sia dagli sperimentalismi linguistici dell’avanguardia, sia dall’intimismo lirico, Risi si pone come osservatore della realtà, della storia e dell’interiorità umana, con una voce sobria, discorsiva e profondamente etica.

La sua prima raccolta matura, Le opere e i giorni (1941), è già programmatica nel titolo: il riferimento al poema di Esiodo è solo apparente, perché in Risi si tratta non di cantare la fatica cosmica dell’uomo antico, ma di redigere un inventario disilluso della condizione moderna, segnata da alienazione, razionalizzazione tecnica, svuotamento delle relazioni. Qui emerge con chiarezza uno degli elementi strutturali della sua poetica: l’intreccio tra una lingua prosastica e una metrica sorvegliata, che non rinuncia alla misura ma rifiuta ogni musicalità eccessiva. Il verso risiaco è spesso breve, nitido, spoglio: costruisce immagini con tratti netti, quasi visivi, come se la parola si facesse lente d’ingrandimento o lente cinematografica, capace di isolare dettagli, gesti, frammenti del quotidiano che svelano verità più profonde.

Questo legame con l’immagine e la visione non è casuale. Risi fu anche regista e autore di documentari, e la sua esperienza nel campo delle arti visive informa in modo evidente il suo modo di scrivere. La poesia, come il cinema, diventa un atto di montaggio, una sequenza di inquadrature verbali, un movimento controllato dello sguardo che seleziona, ordina, struttura. La dimensione visiva della sua scrittura non è mai decorativa, ma conoscitiva: il dettaglio, l’oggetto, la scena sono strumenti per accedere a ciò che resta invisibile nella banalità dell’esperienza. In questo senso, la sua è una poesia della soglia: tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il taciuto.

Negli anni Settanta, con raccolte come Di certe cose che dette in versi suonano meglio (1970) e Pensieri elementari (1961), Risi porta avanti una riflessione sempre più esplicita sul linguaggio poetico, inteso come spazio di resistenza e di precisione. In un tempo dominato dalla comunicazione massificata e dalla banalizzazione del discorso pubblico, la poesia per Risi è il luogo dove certe verità – intime, difficili, marginali – possono ancora essere dette. Il poeta assume allora una postura liminale: né intellettuale organico né artista isolato, ma testimone discreto, capace di osservare la realtà senza urlare, e di restituire il peso delle cose con un tono pacato ma inesorabile.

Che altro ci aspettiamo
se non che a noi vengano
enormi varietà di apprensione?
Chi non tormenta l’insonnia
soffrirà di una mole equivalente
di apprensione in sogno
e il peso
quel giorno
sarà quello giusto.

Un’altra caratteristica distintiva dell’opera risiaca è il rapporto con l’intimità. Nelle sue poesie dedicate all’esperienza privata – l’amore, la convivenza, la vecchiaia, la malattia – non si trova mai traccia di sentimentalismo o abbandono elegiaco. L’interiorità viene scandagliata con lo stesso rigore analitico che l’autore riserva all’osservazione del mondo esterno. L’intimità diventa così uno specchio dell’universale, e viceversa: ciò che accade nel chiuso di una stanza rivela le tensioni di un’intera epoca, e il gesto minimo diventa figura di una condizione collettiva. Anche l’eros è trattato con pudore e lucidità: mai esibito, mai drammatizzato, ma sempre inscritto nella cornice di una riflessione più ampia sul desiderio, sul fallimento comunicativo, sulla distanza che separa gli esseri umani anche nei momenti di massima prossimità.

Uno degli aspetti più originali della poesia di Risi è la sua capacità di trattare l’esperienza intima – l’amore, la coppia, la malattia, la vecchiaia – con una lingua di superficie limpida, ma attraversata da correnti profonde. In Pensieri elementari (1974), Risi indaga l’eros e l’affettività con uno sguardo insieme ironico e doloroso.
Il tono è secco, tagliente, apparentemente semplice. Ma sotto la scorza della quotidianità si apre un abisso: quello del desiderio inappagato, della solitudine a due, del fallimento comunicativo. L’intimità, per Risi, è luogo ambiguo, oscillante tra vicinanza e distanza, tra parola e silenzio.

Ci vogliono voci forti
ugole di ferro, oggi, per dire
una sola sommessa parola d’amore.

Nel corso del tempo, la poesia di Risi si fa sempre più essenziale, asciutta, quasi aforistica. Le raccolte della maturità – Il mondo in una mano (1994), Ruggine (2002), Né il giorno né l’ora (2008) – mostrano una parola che si misura con il tempo, con la perdita, con la progressiva consunzione del corpo e della memoria. Ma anche in queste opere non si cede mai al patetico: la voce si fa più sottile, ma non meno lucida. È una poesia dell’età, ma non una poesia sulla vecchiaia: il tema non è il rimpianto, bensì la continuità della coscienza e della responsabilità anche nel declino. La sobrietà del tono, la misura della parola, la capacità di nominare le cose con precisione diventano strumenti di resistenza contro l’entropia della mente e del mondo.

Vivere i fatti

Il futuro? è all’origine
un vissuto è trapassato
tale era già ai proavi
nei millenni
Noi dobbiamo
solo raccoglierlo
perfezionando l’accadere
Il tempo a venire
è un tempo ricordato.


 

Inquietudine

Si guarda allo specchio
non sono più io la mano
sulla fronte non implica sudore
stanchezza piuttosto stagnazione
la soglia di un sonno privo di rilievo
quasi un cambio d’abito per ogni stagione
ormai ridotta al solo autunno:
il vissuto in declino la realtà
che traccia un limite e suscita timore
un’esistenza buttata là senza riguardo.


L’attesa

Questo il mondo
almeno il nostro altri non vedo
un alito di serra se ne viene
dall’Africa rovente
squaderna i libri li sfarina
perderanno tutti i loro fogli
un manoscritto mai finito
scritture non convinte
L’ora se ne va porta via tutto
talvolta un sempreverde cupo
inopinato si tramuta in un
innaturale vigore e pure questo
è amore
Amore? ma se da sempre eravamo
al suo servizio.

Un aspetto poco esplorato ma centrale nella poetica di Risi è il suo rapporto con la traduzione. Traduttore di autori come Brecht, Eluard, Hölderlin, Risi concepisce la traduzione non solo come esercizio linguistico, ma come forma di conoscenza e di adesione a una comunità di senso. Tradurre, come scrivere poesia, implica un movimento tra sé e l’altro, una ricerca di fedeltà che non è mai riproduzione, ma interpretazione critica. In questo senso, il suo stile poetico – fatto di approssimazioni calibrate, di chiaroscuri semantici, di equilibrio tra fedeltà al dato e scarto immaginativo – si può leggere anche come frutto di una lunga riflessione sul lavoro del traduttore.

Nel panorama poetico italiano del secondo Novecento, Risi rappresenta un’eccezione importante. Lontano dalle grandi famiglie poetiche (l’ermetismo, la neoavanguardia, la linea lombarda), ha costruito un percorso personale e rigoroso, che ha avuto scarsa visibilità presso il grande pubblico, ma grande rispetto da parte dei lettori e degli scrittori più attenti. La sua “poesia minore” – per usare un’espressione che gli si addice solo nel senso deleuziano di un’arte che lavora ai margini, nei vuoti, nei silenzi – si impone per la sua coerenza e per la sua capacità di attraversare il tempo senza soccombere alle mode.

La lezione di Nelo Risi resta oggi preziosa. In un’epoca segnata dalla sovrapproduzione verbale e dall’inflazione del linguaggio, il suo esempio invita a una scrittura consapevole, necessaria, rigorosa. La sua poesia ci insegna che si può parlare del mondo senza gridare, che si può nominare il dolore senza compiacersene, che si può fare della parola un atto morale prima ancora che estetico. È questa discrezione eloquente, questa forza della misura, che rende la sua opera ancora capace di parlare – sommessamente, ma con intensità – al nostro presente.

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