Non era previsto che sopravvivessimo

Non era previsto che sopravivessimo: Can Wenji (Yan) | L’Altrove

Cai Wenji, noto anche come Cai Yan, fu una poeta e compositrice della dinastia Han.

Cai Wenji nacque poco prima del 178 nella Prefettura di Yu (圉縣), nell’attuale contea di Qi, Kaifeng, Henan. Cai Wenji si sposò all’età di quindici anni con un Wei Zhongdao (衛仲道) nel 192, che morì poco dopo senza figli. Nel 195, il caos in seguito alla morte del cancelliere Dong Zhuo portò i nomadi Xiongnu nella capitale cinese e Cai Wenji fu presa prigioniera nelle terre del nord. Durante la sua prigionia, divenne la moglie del capo Xiongnu Liu Bao (il “Saggio Re della Sinistra”) e gli diede due figli. Fu solo dodici anni dopo che Cao Cao, il nuovo Cancelliere di Han, la riscattò in nome di suo padre. Quando Cai Wenji ritornò in patria, lasciò i suoi figli alla frontiera.

Si sposò di nuovo, questa volta con un funzionario governativo di nome Dong Si (董祀). Tuttavia, Dong Si commise un crimine condannabile a morte e Cai Wenji andò da Cao Cao per chiedere l’assoluzione di suo marito. A quel tempo, Cao Cao stava organizzando un banchetto per intrattenere gli ospiti, che erano emozionati dall’aspetto e dal comportamento angosciati di Cai Wenji. Toccato da una supplica così emotiva, Cao Cao perdonò Dong Si. Più tardi scrisse due poesie che descrivevano questi suoi anni turbolenti.

Il padre di Cai Wenji, Cai Yong, era uno scrittore affermato, ma le sue opere andarono perdute a causa delle devastazioni della guerra. Su richiesta di Cao Cao, Cai Wenji fu in grado di recitare a memoria fino a quattrocento delle quattromila opere perdute di suo padre.

Cai Wenji, anche lei, era un’affermata calligrafa del suo tempo e le sue opere venivano spesso elogiate insieme a quelle di suo padre. Le sue poesie erano note per il loro tono doloroso, parallelo alla sua vita dura. La famosa opera guqin Diciotto canti di un flauto nomade le è tradizionalmente attribuit, sebbene la paternità sia una questione perenne per il dibattito accademico. Si pensa che le altre due poesie, entrambe intitolate Poesia del dolore e della rabbia (悲憤詩), siano di sua mano.

Ecco di seguito due poesie tratte da Diciotto canti di un flauto nomade:

Ho oltrepassato il paese dei Han, sono entrata nei borghi dei barbari,
perduta la casa violato il mio corpo, meglio sarebbe non esser nata.
Ruvidi panni e pelli le mie vesti, il corpo vi ripugna,
montone rancido il cibo, violenza ai miei sensi.
Tamburi che rullano, dal cader della notte fino al giorno,
tra i barbari il vento è potente, ottenebra il campo.
Soffro il presente, piango sul passato, la terza stanza è compiuta,
la pena che nutro, quando si placherà?


Sedicesima stanza, sconfinato è il rimpianto,
io e i miei figli, chi di qua chi di là.
Il sole a oriente la luna a occidente, si cercano invano,
non c’è modo di rivederci, sterile il tormento.
Nemmeno il giglio dell’oblio dissipa la mia pena,
pizzico la cetra sonora, quanta tristezza

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