Le nostre interviste

Intervista alla direzione di The Florence Review | L’Altrove

Le riviste sono sempre stati luoghi di intenso dibattito culturale, di indagine e scoperta e rappresentano una delle vie più immediate della poesia. Nel processo di evoluzione della poesia, le riviste sono state il campo dove queste trasformazioni sono state delineate, esaminate, studiate. Tra formato digitale e cartaceo, ogni rivista è parte integrante della poesia, un suo elemento fondamentale per le sue capacità di comunicare l’estremo fascino della materia poetica.

In questo senso si muove The Florence Review. Nata nel capoluogo toscano nel 2016, è la prima rivista letteraria bilingue in italiano e inglese, pubblica e traduce autori ed autrici contemporanei ed ospita nuove voci selezionate attraverso bandi di concorso. Dal 2022 viene pubblicata e distribuita dall’editore Le Lettere.

A dirigerla sono Martino Baldi e Alessandro Raveggi e Diego Bertelli (vicedirettore). Per l’occasione abbiamo fatto ad ognuno alcune domande, i quali ci hanno gentilmente risposto.

Anzitutto vogliamo ringraziarvi. Una rivista su carta in un modo letterario sempre più digitale. Una scelta per tornare alle origini? Oppure avete già in mente di proporre una versione digitalizzata della rivista stessa?

La nostra prima idea è stata quella di realizzare una rivista letteraria che puntasse su alcune innovazioni di contenuto e fosse, nel contempo, un bell’oggetto da guardare, collezionare, regalare. Alla fine siamo tutti amanti dei libri ed è normale che qualcuno continui a farne o almeno ci provi, no?

“Orizzonte” è il titolo del poetry contest lanciato per scegliere le poesie e i racconti presenti nella rivista. Perché proprio Orizzonte?

Per tutta una serie di motivi, e anche di coincidenze, il primo numero di The Florence Review è da intendere sia in continuità col passato sia nei termini di un nuovo inizio. Per cui ci siamo domandati quale fosse adesso il “nostro orizzonte”, specie dopo quello che tutti, veramente tutti, abbiamo passato, e stiamo in parte ancora passando (alla pandemia si è aggiunta perfino una guerra alle porte dell’Europa). Da qui abbiamo esteso la parola ad altri significati, di ordine sociale, ecologico, politico, ecc., abbracciando la prospettiva sul futuro che il termine implicava: “Quale orizzonte è ancora possibile per l’uomo?” In questo momento di discontinuità, sentivamo il bisogno di guardarci intorno, e soprattutto di guardare avanti nell’unico modo per noi possibile: chiamando alcuni autori italiani a esprimersi su un tema urgente nelle sue varie implicazioni. Autori che, lo vedrete da soli, hanno risposto nei modi più vari e spesso, per noi, inaspettati.

Quale può essere l’avvenire della poesia in una società di massa come la nostra?

Se intendi la domanda in termini di linguaggio, possiamo dirti che già all’inizio degli anni Sessanta ci si è chiesti la stessa cosa. In un articolo intitolato Critica e immaginazione, uscito nel 1956 su «Il Verri», la rivista attorno alla quale ruotava la Neoavanguardia italiana, Luciano Anceschi afferma: «Ebbene, se è vero, come qualcuno ha detto, che idee e principi sono norme, ma sono anche armi, tale idea si presenta come pensiero consapevole delle nuove espressioni e ricerche; come criterio per giungere al rilievo di ciò che, in modo valido, dà carattere alla tipica universalità delle forme contemporanee […] attraverso le modificazioni della sensibilità e del gusto, che, con la sua novità, esso porta nel mondo, come impreveduta maniera di lettura […]». In generale, il linguaggio risponde sempre ai cambiamenti socio-economici di una società (si pensi alla nascita del giornalismo anglosassone in epoca moderna) anche senza dover enucleare principi, e crediamo che lo stia facendo anche adesso, specie sul versante “social”, con tutto che è ancora troppo presto per capire gli esiti di certe forme espressive (penso agli “Instapoets”). Lo spirito della lingua è quello dell’adattamento e della sopravvivenza umane; se parliamo di avvenire della poesia dobbiamo intenderlo in questa prospettiva, altrimenti si profila l’ipotesi di una crisi o fine della civiltà. Senza linguaggio l’uomo non sopravviverebbe.

Oppure potremmo risponderti in modo tranchant, dicendoti che la poesia se ne è sempre fregata di quelle che sono le condizioni più o meno estreme con cui si è trovata a fare i conti, quasi sempre avverse. La poesia è come quelle piante selvatiche che attecchiscono dappertutto, anche in una minuscola fessura tra una pietra e l’altra. Ricordi cosa diceva Auden? «Poetry makes nothing happen: it survives». Insomma, chi è interessato alla poesia la cerca e la trova. Nella società attuale ci saranno forse meno poeti e meno lettori, per un verso, o forse ce ne saranno di più di prima, ma quello che è certo è che ci sono più strumenti per fare poesia, per cercarla e per trovarla.

Oggi, serve ancora scrivere? Lo scrittore presume di avere ancora un pubblico al quale rivolgersi, col quale aprire un colloquio? La sua funzione o missione ha ancora un senso?

Noi in ogni numero convochiamo diversi autori a riflettere su una parola-chiave che possa interrogare trasversalmente la realtà e i suoi mutamenti. I loro risultati li traduciamo perché crediamo che meritino un pubblico più ampio di coloro che possono leggerli in italiano. E accompagniamo tutto con un “super-racconto”, che è quello dell’illustratore. Nel corso della vita della rivista, crediamo che la successione dei numeri sia una successione di sguardi sulla realtà che raccontano, anche in diacronia, qualcosa in profondità, come solo la letteratura sa fare. Forse proprio quello che facciamo è la risposta migliore che possiamo dare a questa domanda, perché quello che facciamo di risposte ne contiene molte, se non tutte.

Spesso si dice che la lingua è morta, che la poesia è morta. Qual è il suo stato di salute in Italia? E nel mondo?

La poesia è morta, la critica letteraria è morta, l’arte è morta, Dio è morto. Tutti morti come i babilonesi nel film di Benigni. Siamo in realtà immersi in una sorta di flusso continuo. Come ha scritto un poeta, non per caso, dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva. Un altro poeta ancora scriveva: Benché gli amanti si perdano, l’amore sarà salvo. Diciamo che la poesia è l’amore, non l’amante.

Caproni si augurava che la letteratura non fosse più vista come mezzo di successo e basta. Cosa vi augurate voi? Un ritorno alle radici puramente culturali di essa?

Ci sono infiniti modi di fare le cose e infiniti motivi per farle. Che sono tanti quanti sono gli uomini che le fanno. Questo vale anche per la letteratura. Tra questi motivi c’è l’ambizione. Tutto ciò è molto umano. La questione semmai è che oggi pare anacronistico pensare a un’idea puramente culturale di letteratura, specie in una società così stratificata come la nostra, dove culturale ha ormai assunto connotati fortemente ideologici. Ma sai cos’è vero? Che le grandi opere della letteratura, prosa, poesia e tutto quel che vuoi, nascono sempre nella solitudine. Che non significa isolamento o rifiuto del presente; è più che altro il vero unico luogo della riflessione sul presente, la solitudine, intesa come spazio mentale non condizionato da quello che ha assorbito; è un po’ la torre di Montaigne, se vogliamo. Veri nemici dell’arte sono la mancanza di profondità e la vanità di credersi dalla parte del giusto. Noi ci auguriamo che la letteratura continui a essere problematica, a sconfessare il presente, il progresso, ciò che pare il migliore dei mondi possibili. La letteratura, per come la intendiamo noi, non ha radici “culturali”, ma la cultura stessa, se avulsa dai significati più ideologici del presente, cessa di averne (i significati sono sempre a posteriori) La radice di ogni arte della parola è magica (visto che oggi va molto di moda citare “composita” giapponesi, potremmo dire che la parola è kotodama) e nel contempo quotidiana; nasce sia da un legame che trascende il nostro orizzonte sia dal bisogno estremamente concreto di comunicare entro quello stesso orizzonte.

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