Riscoprire i poeti,  Senza categoria

L’Unità d’Italia in poesia | L’Altrove

Il 17 marzo 1861 veniva proclamato il Regno d’Italia.
Furono tanti i canti popolari, gli inni e le poesie scritte in quel periodo di rivoluzioni e moti.
Manzoni, Carducci, Berchet furono alcuni degli scrittori che sentirono il bisogno di raccontare i concitati momenti e con le loro parole spinsero gli italiani all’azione.

Sì tratta di una poesia atta a smuovere le coscienze di un popolo dominato dagli stranieri, stanco e provato e che anelava l’indipendenza. Così nei propri versi il poeta intreccia l’amore per la Patria ai sentimenti di ogni individuo e si fa portavoce di un ideale nazionale unitario, fondato sull’unità di lingua, di religione, di tradizioni, di stirpe, di sentimenti, che affratella tutti gli italiani.

Poesie per l’Unità d’Italia

Tra le poesie più conosciute è bene ricordare La spigolatrice di Sapri composta da Luigi Mercantini. La poesia racconta la spedizione di Carlo Pisacane che preparò un piano di insurrezione nell’Italia meridionale, la cosiddetta spedizione di Sapri; nel 1857 si impadronì, con pochi compagni, di un piroscafo di linea con il quale attraccò a Ponza per liberare oltre trecento prigionieri, in maggioranza detenuti per reati comuni, con i quali sbarcò a Sapri, sulle coste della Campania meridionale. La colonna dei ribelli capeggiati da Pisacane non riuscì tuttavia a innescare la rivolta tra i contadini, così che fu facile per le truppe borboniche annientarla: Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero.

Ecco il testo:

La spigolatrice di Sapri

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!

Me ne andavo al mattino a spigolare
quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s’è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!

Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra.
Ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
“Siam venuti a morir pel nostro lido”.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?”
Guardommi, e mi rispose: “O mia sorella,
Vado a morir per la mia patria bella”.
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: “V’aiuti il Signore!”

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrâr con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliâr dell’armi:
ma quando fûr della Certosa ai muri,
s’udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra ’l fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso più di mille.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Eran trecento e non voller fuggire,
parean tre mila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano:
fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma a un tratto venni men, né più guardai:
io non vedea più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.

Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!


Marzo 1821, di Alessandro Manzoni, appartiene alla fase poetica manzoniana di ispirazione civile e patriottica. L’ode fu scritta in occasione dei moti carbonari di Torino del marzo 1821, quando sembrò che l’esercito piemontese stesse per varcare il Ticino per aiutare i patrioti lombardi a liberarsi dalla dominazione austriaca.
È un appello alla libertà di tutti i popoli, insieme al riconoscimento della presenza di Dio nelle vicende umane e nel sostegno a combattere per il riscatto della patria dallo straniero. Venne pubblicata solo nel 1848, a cura del Governo provvisorio di Milano.

Marzo 1821

Soffermati sull’arida sponda,
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell’antica virtù,
Han giurato: Non fia che quest’onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l’Italia e l’Italia, mai più!

L’han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell’ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol.

Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell’Orba selvosa
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell’Oglio le miste correnti,
Chi ritogliergli i mille torrenti
Che la foce dell’Adda versò,

Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.

Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo;
L’altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato, un segreto d’altrui;
La sua parte, servire e tacer.

O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v’è.
Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de’ barbari piè?

O stranieri! sui vostri stendardi
Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V’accompagna all’iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
Ogni gente sia libera, e pera
Della spada l’iniqua ragion.

Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de’ vostri oppressori,
Se la faccia d’estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì
Chi v’ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v’udì?

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
Che non disse al Germano giammai:
Va’, raccogli ove arato non hai;
Spiega l’ugne; l’Italia ti do.

Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
Dove ancor dell’umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un’alta sventura,
Non c’è cor che non batta per te.

Quante volte sull’Alpe spiasti
L’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne’ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a’ tuoi santi colori,
Forti, armati de’ propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.

Oggi, o forti, sui volti baleni
Il furor delle menti segrete:
Per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de’ popoli assisa,
O più serva, più vil, più derisa
Sotto l’orrida verga starà.

Oh giornate
del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c’era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.


La vita di Giosuè Carducci fu animata da un vivo e forte senso patriottico. Della raccolta di poesie Juvenilia fa parte l’ode L’annessione, che venne successivamente intitolata Plebiscito.

Plebiscito

Leva le tende, e stimola
La fuga de i cavalli;
Torna a le pigre valli
Che il verno scolorò!

Via! su le torri italiche
L’antico astro s’accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.

Amor de’ nostri martiri,
De i savi e de’ poeti,
Da i santi sepolcreti
La nuova Italia uscì:

Uscì fiera viragine
De le battaglie al suono,
E la procella e ‘l tuono
Su ‘l capo a lei ruggì.

Levò lo sguardo; e splendida
Su ‘l combattuto lido
Mandò a’ suoi figli un grido
Tra l’alpe infida e ‘l mar:

E di ridesti popoli
Fremon le valli e i monti,
E su l’erette fronti
Un sangue e un’alma appar.

Già più non grava a i liberi
Viltà di cor le ciglia:
Siam l’itala famiglia
Cui Roma il segno diè.

La forte Emilia abbracciasi
A la gentil Toscana:
Legnano e Gavinana
Sola una patria or è.

L’ombre de’ padri sorgono
Raggianti in su gli avelli;
Il sangue de’ fratelli
Da’ campi al ciel fumò.

Già sotto il piede austriaco
Bolle lampeggia e splende:
Leva, o stranier, le tende:
Il regno tuo cessò.

Piena di fati un’aura
Da i roman colli move;
La terra e il ciel commove
Le tombe e le città.

In ogni zolla, o barbaro,
A te una pugna attesta
L’antica età ridesta
Con la novella età.

Vedi: Crescenzio i tumuli
Schiude nel suol latino:
Levato in piè Arduino
Incalza il nuovo Otton.

T’incalza il sasso ligure,
La siciliana squilla;
E Procida e Balilla
Accende la tenzon.

Ecco: Ferruccio l’impeto
Ed il furor prepara:
Lo stuol di Montanara
Intorno a lui si tien.

Ne i dolor lunghi pallido
Ecco il sabaudo Alberto:
Gittato ha il manto e ‘l serto,
Sol con la spada ei vien.

A’ varchi infidi cacciano
I tuoi destrieri aneli
Poerio con Mameli,
Manara e Rossarol.

Nero vestiti affrontano
Te del Carroccio i forti.
Tornano i nostri morti.
Tornano a’ rai del sol.

De i vecchi e nuovi martiri
La voce si diffonde,
E un grido sol risponde
L’Arno la Dora il Po.

Sola una mente e un’anima
Tutta l’Italia accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.

E tu, signor de’ liberi,
Straniero, a le tue vergini
Gran lutto allor sovrasta:
Gitta la spada e l’asta;

Dio gli oppressor fiaccò.
De la vendetta il fulmine
Già l’ale infiamma, e scende.
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.


L’Ode All’Armi! All’Armi, scritta da Giovanni Berchet in occasione delle insurrezioni di Modena e Bologna del 1830-1831, è uno dei componimenti più forti della nostra lirica patriottica. Fu adottato come Inno della Giovane Italia.

All’Armi! All’Armi

Su. Figli d’Italia! su, in armi! coraggio!
Il suolo qui è nostro: del nostro retaggio
Il turpe mercato finisce pei re.
Un popol diviso per sette* destini,
In sette spezzato da sette confini,
Si fonde in un solo, più servo non è.

Su. Italia! su, in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!

Dall’Alpi allo Stretto fratelli siam tutti!
Su i limiti schiusi, su i troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color!
Il verde, la speme tant’anni pasciuta;
Il rosso, la gioia d’averla compiuta;
Il bianco, la fede fraterna d’amor.

Su, Italia! su, in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!

Gli orgogli minuti via tutti all’obblio!
La gloria è de’ forti. Su, forti, per Dio,
Dall’Alpi allo Stretto, da questo a quel mar!
Deposte le gare d’un secol disfatto,
Confusi in un nome, legati a un sol patto,
Sommessi a noi soli giuriam di restar.

Su, Italia! su, in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!
Su, Italia novella! su, libera ed una!
Mal abbia chi a vasta, secura fortuna
L’angustia prepone d’anguste città!
Sien tutte le fide d’un solo stendardo!
Su, tutti da tutte! Mal abbia il codardo,
L’inetto che sogna parzial libertà!

Su, Italia! su, in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!
Voi chiusi ne’ borghi, voi sparsi alla villa,
Udite le trombe, sentite la squilla
Che all’armi vi chiama del vostro Comun!
Fratelli, a’ fratelli correte in aiuto!
Gridate al Tedesco che guarda sparuto:
L’Italia è concorde: non serve a nessun!

*I sette Stati in cui era divisa l’Italia in quell’epoca.


La bandiera tricolore è una canzone patriottica, popolarissima, con numerose varianti nel testo.
Secondo alcuni, nella sua versione più lunga, la canzone è del 1859 e ne è ignoto l’autore. Secondo altri, una versione più corta veniva cantata già nel 1848. L’autore delle parole sarebbe Francesco Dell’Ongaro, patriota e poeta, mentre la musica verrebbe attribuita a un certo Cordigliani.

La bandiera tricolore
sempre è stata la più bella:
noi vogliamo sempre quella,
che ci diè la libertà!

Da per tutto la bandiera
tricolore al sol risplende
sulle torri e sulle tende
dell’italico guerrier.

La bandiera gialla e nera
qui ha finito di regnar,
la bandiera gialla e nera
qui ha finito di regnar.

Tutti uniti in un sol patto,
stretti intorno alla bandiera,
griderem mattina e sera:
viva, viva i tre color!

Finché ognun di noi sia vivo
la bandiera tricolore
del nemico insultatore
nelle mani non cadrà.

Visualizzazioni: 107

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *