Estratti ed Inediti

Inediti di Daryoush Francesco Nikzad | L’Altrove

Sono gratis,
una consumazione regalata
una canzone di Sanremo,
una delusione prima della fine.
Una festa mancata una scopata stordita,
la forma del disordine.
Un canto che passa
e non torna piĂš,
voci lontane perse
nella terra degli ulivi.
Sono aria malsana
sentore di guasto,
sono il punto debole
la tua deviazione del pensiero.
Sono tutto questo,
un motore che gira a vuoto
spreco di energia,
una strada sbagliata
un divieto di sosta,
lo schianto.
Sono una prigione
per la vita.


Il letto che ci accoglie,
inerme confidente
di forze centripete d’anime;
corpi stanchi precipitano
riposano i pensieri canuti
e i sogni superstiti,
quelli persi nei cassetti dei traslochi.
Riempiamo salvadanai d’idee
in una caduta lenta,
incessante,
i capelli bianchi
si notano prima sul cuscino.
Sembriamo talmente stanchi
che a stento si vede il colore degli occhi;
le cose accadono
le clessidre servono a giocare,
a scherzare sulla fine
che arriva senza riposo
una sera di queste.
Il letto che ci spia
ogni santo giorno,
ancora una volta,
mentre scegliamo l’unica cosa che ci resta,
noi.


Questa vita, in breve
mi dico
sfugge e abbaglia,
questo furbo declino
nella dimenticanza della fine certa;
io voglio le valanghe sotto i piedi
evito l’erba fresca, ogni giorno
dirmi che il sole mi odia,
invidiare gli alberi
e schifare le vite
che uccido sotto i piedi.
Voglio che la natura mi sotterri
per quello che sono,
dire alle mie stesse ossa
che sono una gabbia,
sospendere la fretta,
dormire con un occhio solo.
Abbracciare ogni forma d’inutilità,
sabotare le credenze
farmi prendere in giro da tutti
e smettere di produrre,
essere il capofila del fallimento collettivo
decapitare il successo,
attestare il decesso clinico del mio io.
Essere lo schiavista dello scrittore che ho dentro,
e scappare di continuo
senza mai sapere.
Finire i giorni che mi restano
cosĂŹ, nella disfatta di un uomo e la sua penna
dare una patria al buio
ancor prima che si spenga la luce.


Vedo qualsiasi cosa
come fossi estraneo alla mia vita,
per ogni ricordo di gioia
ne ho due terribili,
m’infrango e
mi sento stupido, persino
se penso alle cose belle.
Ho ucciso il figlio
che non sono mai stato,
eppure respiro
e non mi vergogno
e odio.
Non ho paura di mostrarmi misero,
non temo nessuno
truffo la vita
quando divento bianco
quando mi ritrovo
figlio della carta.


Continuo a scrivermi parole di conforto
e divento sordo
mi guardo nelle vetrine
e dico: che mi avete fatto?
Sento una musica lontana
di feste abbandonate,
nessuna canzone è per noi
nemmeno i vicini ci ascoltano piĂš.
Io non cambio letto
e dormo da solo
riempio la testa di suoni
e ballo da solo,
di tutto ho bisogno e tutto rincorro
brindo col mio ritratto.
Voglio bere ancora
e nessuno mi ferma,
reclamo un tuo invito
come fosse il fondo di questo bicchiere.
Raccolgo sorrisi stanchi
e cocktail di sesso mal miscelati.
Mi distruggo nel nome dei ricordi
apro tutte le porte
e un attimo dopo le sbatto,
vivo in un silenzio
che si dimena,
vomita nel mio stomaco
e non termina mai.

L’AUTORE

Daryoush Francesco Nikzad è nato a Teheran nel 1983. Vive in Italia dall’età di due anni, ma non ha ancora trovato la sua casa. Ha studiato Scienze Politiche e Comunicazione; attualmente scrive per il teatro, cinema, narrativa e pubblicità. Lavora anche come attore, bartender, cameriere, poeta, bagnino, benzinaio ecc.

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