Non mi orizzonto mai / nei mattini troppo luminosi…
da Giocavo all’ala, PeQuod, 2005.
La poesia di Stefano Simoncelli (1950–2025) rappresenta uno dei più fedeli percorsi poetici del secondo Novecento e del primo ventennio del XXI secolo italiano. Con la sua morte, avvenuta il 20 maggio 2025, scompare una voce liminare, eppure centrale, della poesia italiana contemporanea: un autore che ha saputo costruire, tra ritiro e fedeltà, un’opera fondata sul dolore, sull’assenza, sulla ricerca impossibile di un punto di aggancio tra l’io e la realtà, tra il corpo e la memoria. Questo saggio intende ripercorrere criticamente le tappe principali della sua opera poetica, alla luce delle pubblicazioni più significative e delle riflessioni maturate in contesto critico.
Un’esistenza defilata, una voce in ascolto
Stefano Simoncelli nasce a Cesenatico nel 1950. Negli anni Settanta è tra i fondatori della rivista Sul Porto, una piattaforma che ospitò contributi di Fortini, Pasolini, Raboni, Caproni. Dopo l’esordio con Via dei platani (Guanda, 1981), vincitore del Premio Mondello Opera Prima, Simoncelli scompare a lungo dalle scene editoriali: solo nel 2004, dopo la morte della madre, torna alla poesia con Giocavo all’ala (Pequod), segnando un nuovo inizio esistenziale e poetico. Seguono Terza copia del gelo (2012), Hotel degli Introvabili (2014), Prove del diluvio (2017), A beneficio degli assenti (2020) e Sotto falso nome (2022), candidato al Premio Strega Poesia.
Lontano da ogni strategia mediatica e di carriera letteraria, Simoncelli si muove in un ambito poetico che non fa dell’enfasi né dell’epifania la propria cifra. Piuttosto, lavora per sottrazione, per residui: la sua è poesia dell’indizio, dell’infranto, del ricordo che si sgretola mentre tenta di farsi parola.
La perdita come origine: Giocavo all’ala
L’opera Giocavo all’ala, dedicata alla madre, è l’atto fondativo della poesia matura di Simoncelli. Fin dai versi iniziali — “annusando l’aria / come una bestiola smarrita / in cerca dei tuoi vestiti” — si impone la grammatica del lutto, articolata non attraverso l’elegia, ma tramite un realismo minimale, domestico, familiare. I “rocchetti colorati di cotone”, le “scatoline stracolme di bottoni” sono oggetti-memoria, totem del quotidiano che resistono all’annientamento della morte.
La madre appare non solo come assenza, ma come figura catalizzatrice di un’intera topografia emotiva, nella quale il soggetto si aggira come un sopravvissuto, un custode di reliquie. La poesia della “sciarpa viola” che “imboscata […] in fondo all’armadio” scampa allo “sciacallaggio / delle zelanti donne delle pulizie” è emblematica: l’oggetto residuo diventa feticcio del passato, ma anche soglia di un dialogo impossibile con chi non c’è più.
“La stazione della memoria”: sogno, assenza, sopravvivenza
Nelle poesie di Terza copia del gelo (2012) la tematica della perdita si generalizza. La soggettività si muove in un paesaggio rarefatto, onirico, dove le presenze sono evocate sotto forma di sogno o allucinazione. La “stazione della memoria” è metafora precisa di questo spazio: un luogo dove “arrivano i treni notturni”, e il soggetto cerca disperatamente, con una voce rotta dalla mancanza, di sapere: “Mia moglie è con voi? / Fatemi ascoltare ancora la sua voce”.
Non c’è possibilità di consolazione in Simoncelli, né redenzione. La poesia non salva: testimonia. In questo senso, la sua opera si pone come “terza copia del gelo”, come documento fragile, ma necessario, di una temperatura esistenziale invernale, incapace di generare ma ostinata nel resistere.
Hotel degli introvabili e Prove del diluvio: la famiglia, il ritorno, l’infanzia
Con Hotel degli introvabili (2014) la poesia si estende ai rapporti familiari e al padre, rievocato con tenerezza e disillusione: “mi illudevo, distante da tutti e fumando, / ma niente, nemmeno la brace della sigaretta”. Anche qui la poetica dell’attesa e del mancato incontro si fa cifra dominante. Nella poesia dedicata alla famiglia — “a Daniela, Tea e Margot” — l’amore non è dichiarato, ma sussurrato “attraversando il paesaggio frantumato”. L’autore si configura come padre smarrito, fragile, che cerca di proteggere ciò che ama nonostante il caos che lo circonda.
Prove del diluvio (2017) è forse la raccolta in cui la dimensione autobiografica assume contorni più nitidi: l’infanzia, il calcio giocato “sul campetto intriso di pozzanghere”, il trauma della morte, la nebbia che “è venuta su dal canale”, sono tutti elementi di un paesaggio interiore che si riflette nel paesaggio fisico della provincia romagnola, specchio infranto della propria interiorità.
La lingua dell’essenziale
Lo stile di Simoncelli è asciutto, composto, privo di abbandoni lirici. Come ha scritto Clery Celeste, la sua poesia è “un romanzo biografico” in versi, costruito con una lingua “poco spettacolare ma intensamente emotiva” (Pangea.news, 2020). La parola si riduce al suo minimo grado di visibilità per aumentare il coefficiente di verità. I versi si spezzano, si fermano in sospensione, il bianco della pagina è parte attiva del senso. In ciò, la lezione novecentesca di Raboni, Caproni, Fortini è metabolizzata, mai imitata.
Vi è in Simoncelli un’economia dell’emozione, una tensione lirica non ostentata ma sedimentata, capace di commuovere senza forzature. Non cerca l’effetto, ma l’autenticità.
Sotto falso nome: l’ultimo approdo
Con Sotto falso nome (2022), Simoncelli entra nella cinquina finalista della prima edizione del Premio Strega Poesia. È un riconoscimento tardivo, ma significativo. La raccolta conferma la coerenza tematica e stilistica dell’autore: l’assenza è ormai un compagno stabile, il ricordo un sistema nervoso che reagisce a ogni stimolo del presente.
Il poeta è, ancora una volta, “custode di reliquie”, ma anche testimone di una visione poetica in cui ciò che resta della vita – l’odore delle mentine Saila, le tracce degli stivali sulla neve, la voce smorzata al telefono – è più vero della vita stessa.
Stazioni remote: l’epopea del fragile
In Stazioni remote, pubblicata nel 2023 e significativamente dedicata alla madre e ad altri fantasmi familiari, l’autore approfondisce i nuclei tematici già presenti nella sua opera: la precarietà dell’io, la trasformazione del corpo, il desiderio di sparizione. “Vado cambiando il mio aspetto / raschiandomi via / fino a ridurmi in poco, / quasi in niente”, scrive in uno dei testi più intensi. La voce poetica cerca una forma di evaporazione, un lasciarsi alle spalle il peso dell’identità per raggiungere una presenza più lieve, forse più autentica.
La stazione diventa così il simbolo di un’attesa interminabile e mai risolta. Non un luogo di partenza o arrivo, ma un margine, una soglia: “Alla stazione della memoria. Chi siete? / Da dove venite? vorrei chiedere…”. Il treno non porta salvezza, ma la reiterazione del trauma. Lo stesso vale per i sogni: “mi affaccio / e vedo, sparse sulla neve, briciole di pane”, come se la sopravvivenza fosse affidata a segni minimi, a dettagli appena percepibili.
Una poetica dell’intercapedine
Simoncelli definiva la propria poesia come “una vita in intercapedine”: un abitare tra mondi, tra vivi e morti, tra presenza e assenza, tra parola e silenzio. In quest’ottica, la sua opera si pone come testimonianza liminare, fragile ma ostinata, di una sopravvivenza interiore.
Nella sua poesia non si trovano proclami, né manifesti. Ma un continuo, quasi ossessivo, tentativo di dire l’indicibile, di nominare con esattezza ciò che si sottrae. È una poesia che fa della discrezione la propria forza, della fedeltà alla propria esperienza un’etica.
Stefano Simoncelli è stato un poeta che non ha mai ceduto alla retorica, né al compiacimento. La sua è una poesia senza salvazione, ma non per questo disperata. In essa, l’assenza si fa materia, il lutto si fa gesto quotidiano, la lingua si fa silenzio che parla. La sua opera rappresenta un vertice silenzioso ma necessario della poesia italiana contemporanea: un lascito prezioso per chi ancora crede che la poesia possa, se non salvare, almeno accompagnare.