Daria Menicanti (Piacenza, 1914 – Mozzate, 1995) si staglia nel panorama poetico del Novecento italiano come una figura appartata e coerente, lucidamente distante dalle avanguardie e dalle poetiche dominanti, ma capace di articolare una voce originalissima, limpida nella forma quanto perturbante nella sostanza. Come osserva Lalla Romano nel Congedo di Daria Menicanti, la sua è una “poesia fuori moda” — e lo è non per marginalità, ma per etica e tensione conoscitiva, per quella volontà di interrogare l’esistenza non attraverso il proclama ideologico o l’ermetismo, ma con la sobrietà della parola meditata e limata, immersa in un razionalismo laico che non esclude, ma anzi include, l’enigma e il limite.
Formatasi nel clima della Scuola di Milano attorno alla figura di Antonio Banfi, insieme a nomi come Giulio Preti, Enzo Paci, Maria Corti, Antonia Pozzi, Luciano Anceschi e Vittorio Sereni, Menicanti incarna in modo peculiare la dimensione più letteraria, poetica e esistenziale di quella stagione: una tensione verso la razionalità critica che si nutre del dubbio, che si esprime in una scrittura capace di unire etica e stile, pensiero e emozione.
Biografia intellettuale e tensione razionalista
La vita di Daria Menicanti si intreccia profondamente alla sua opera. Laureatasi in filosofia nel 1937 con una tesi su John Keats (poi smarrita), Menicanti partecipò attivamente alla stagione culturale milanese della seconda metà degli anni Trenta e del dopoguerra. Fu sposata con Giulio Preti, importante esponente della filosofia neopositivista italiana, dal 1937 al 1954, mantenendo con lui anche dopo la separazione un rapporto di profonda amicizia e scambio intellettuale. La loro corrispondenza, come pure la sua attività di traduttrice, testimoniata da una vasta produzione da Pascal a Plath, mostra una mente attenta alla forma come alla sostanza, capace di filtrare il pensiero altrui con una precisione linguistica non comune.
La sua poesia nasce da questa duplice fedeltà: alla filosofia come metodo critico e alla vita come dato, esperienza, affetto, sofferenza. Come scrive Fabio Minazzi, Menicanti opera una “riduzione fenomenologica del vissuto”, in cui la scrittura poetica diventa “decanto”, specchio e culla del vissuto, luogo di distillazione e trasformazione. La sua è poesia della forma breve, dell’epigramma, dell’ellissi, in cui ogni parola è pesata, ogni immagine è una fenditura sul mondo reale.
L’opera poetica: un canzoniere esistenziale e civile
L’opera poetica di Daria Menicanti si articola in otto raccolte principali, a cui si aggiunge una corposa sezione di poesie inedite giovanili e mature. Le raccolte pubblicate in vita sono: Città come (1964), Un nero d’ombra (1969), Poesie per un passante (1978), Altri amici (1986), Ferragosto (1986), Ultimo quarto (1990); a queste si aggiunge il Canzoniere per Giulio (postumo, 2004), e la pubblicazione dell’opera completa Il concerto del grillo, edita da Mimesis nel 2013.
L’evoluzione dell’opera segue un percorso di interiorizzazione crescente: dai paesaggi urbani e civili della prima raccolta, agli epigrammi metafisici e all’ironia corrosiva dell’ultima. Tuttavia, alcuni nuclei tematici permangono: l’osservazione minuta del quotidiano, l’attenzione per gli esseri viventi (animali, piante, bambini, emarginati), la riflessione sulla parola poetica, il senso della morte, il legame affettivo con Giulio Preti, la città come luogo di passaggio e di identità.
In Città come, la poesia si confronta con la Milano degli anni Sessanta, tra “lutto domestico”, “neve”, “paese”, “limoni”, “Milano”, “via Pré”: un’antropologia urbana sottile, in cui le immagini della metropoli sono filtrate da un occhio che vede l’infinitamente piccolo — la “lucciola”, il “grillo”, il “colombo” — come figura dell’esistenza. Il paesaggio diventa specchio del soggetto, mentre la scrittura evita ogni descrizione sovrabbondante. È la poetica dell’essenziale, del concreto, dell’attimo.
In Un nero d’ombra, il tono si fa più grave, esistenziale. Appaiono testi come Ultimo giorno, Convalescenza, La pioggia di febbraio, Foce al crepuscolo, Thanatos, dove il pensiero della fine si accompagna a una riflessione continua sulla parola poetica. Come annota Vittorio Sereni nella scheda editoriale: “la Menicanti si muove dentro l’ombra con leggerezza e sapienza”. La morte non è mai scandalo, ma dato: si insinua come evento naturale, inscritto nella stessa materialità della parola.
In Poesie per un passante, il dettato si fa più narrativo, pur mantenendo la concisione. Il “passante” è figura della transitorietà, della comunicazione mancata, dell’altro che non si ferma. Vi domina una sottile malinconia, ma anche una vena ironica, come in Sorriso, Epigramma per me, Il piacere dei matti, Non dire. La leggerezza non è evasione, ma antidoto: come scrive lei stessa, “la poesia è un modo della conoscenza”.
Per un passante
Lontano in qualche parte
della città anche tu mi stai cercando
smaniosamente. Io non so chi, non so
il nome.
Ma ti aspetto
in febbre e sudori
Altri amici e Ferragosto insistono su una poetica animale e cosmica: ragni, gatti, serpenti, cavalli, leoni, civette, delfini diventano maschere dell’umano, figure di una zoologia morale. In Ferragosto compare una delle sue poesie più celebri, La coscienza inquieta, dove l’ironia e la metafisica convivono in un equilibrio perfetto.
La coscienza inquieta
In tutte le buone famiglie
sta dietro l’anta uno scheletro stretto
di tanto tempo fa.
Non se ne parla. Ma costui di notte
urta alle porte o fragile passeggia
scricchiolando abilmente, sghignazzando.
Se lo cerchi per meglio riporlo
svicola in danze: vedi il piede vuoto
e veloce che rotea che batte,
senti ridere i denti stretti e piatti.
Se credi che si possa più dormire
dopo il ghigno dannato
quegli sketches
Ultimo quarto segna l’approdo più filosofico, più sapienziale. Poesie come Assedio, Preghiera, Con l’ultimo sospiro, La parola, L’occasione, Una vita, La straniera condensano la sua poetica in una lingua ancora più scarnificata, a tratti oracolare. È l’ultima stagione, in cui l’io si confronta con la soglia, ma senza patetismo, senza simbolismi eccessivi. Lo stile resta sobrio, pacato, e proprio per questo intensamente tragico.
La parola poetica come resistenza
Menicanti riflette più volte sulla propria poetica, in versi e in prosa. In Per una poetica dichiara:
“Dopo un lungo silenzio le parole, anche le più comuni, le più consumate dall’uso, riprendono colore.”
Per lei, la poesia è un evento raro, non un esercizio. È frutto di una ascesi formale, di un silenzio preparatorio, di un’ascolto. Lo scriba, come scrive in Notizie biografiche, lavora con “una manciata di sillabe, vocali, consonanti e allitterazioni”: la parola è materia, non trasparenza.
L’epigramma, forma prediletta della Menicanti, diventa in lei uno strumento conoscitivo: sottrazione, scavo, concentrazione. Le sue poesie sono spesso di pochi versi, ma densissime, articolate su doppi livelli: il quotidiano e il metafisico, il concreto e l’universale.
Epigramma per il cuore
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
Io non capisco come mai la gente
non se ne avveda mentre quello va
tambureggiando sospeso nel petto
e non sosti interdetta a domdomandarsi
qual che si sia e chi fa
Il lavoro del tradurre: una poetica implicita
L’attività di traduttrice, centrale nella vita della Menicanti, non è affatto marginale rispetto alla sua opera poetica. Tradurre significa confrontarsi con l’altro, con la forma, con la lingua. Nei suoi interventi, come quello per la rivista Salvo imprevisti, afferma che la traduzione perfetta è come “un guanto di esatta misura”, una creazione che “non disturba”, ma che possiede una propria autonomia.
Ha tradotto Keats, Plath, Pascal, La Mettrie, Coward, Thomas, Géraldy. In particolare, la traduzione de La campana di vetro di Sylvia Plath (1968) anticipa una sensibilità poetica affine: la scrittura come forma di sopravvivenza, la lucidità che si esercita sul trauma. Anche in questo caso, il lavoro linguistico è etico prima che estetico.
Una poeta da restituire
Daria Menicanti, oggi, è ancora poco letta, eppure la sua poesia risuona con una modernità inaspettata. Nella sua fedeltà al dubbio, alla parola esatta, all’umano, la sua voce si propone come una delle più alte della seconda metà del Novecento. Non gridava, non cercava manifesti, non seguiva le mode: si affidava alla maniera sobria di chi lavora sulla parola come su un lembo di pelle, di vita. Come il grillo che dà il titolo alla sua opera completa, la sua poesia si manifesta per lampi, per fruscii: ma non per questo è meno necessaria, anzi.
Rendere visibile quest’opera, come fa l’edizione Il concerto del grillo, significa non solo restituire una figura dimenticata, ma fare spazio a un modo altro di fare poesia: un modo critico, morale, affettivo, pieno di grazia e di lucidità. In un’epoca di rumori e presenzialismi, leggere Daria Menicanti è un gesto di ascolto, e dunque, di resistenza.