Pégui tra socialismo e cattolicesimo: per una poesia della fede | L’Altrove
Charles Pèguy fu uno dei poeti e filosofi francesi più influenti e conosciuti del suo tempo.
Ebbe fin da piccolo un profondo credo che però si trovò ad abbandonare negli anni dell’adolescenza perché non riusciva a concepire il dogma dell’inferno, ma la recuperò con forza all’età di ventotto anni. In quegli anni si avvicinò al socialismo, mantenendo però sempre un profondo credo ed intervenendo in numerosi dibatti pubblici e su rivista che affrontavano il problema della divisione tra stato e chiesa. Nel 1907, dopo aver ritrovato la fede, si convertì al cattolicesimo e riprese la stesura del poema drammatico su Giovanna d’Arco, interrotto durante l’adolescenza. Egli per tutta la vita cercò la fede nell’esempio delle vite dei santi e dei beati, così scrisse anche Il Portico del mistero della seconda virtù e Il mistero dei Santi innocenti. Nel 1912 il figlio minore, Pierre, si ammalò gravemente ed egli fece voto che in caso di guarigione sarebbe andato in pellegrinaggio a Chartres, il figlio guarì e il padre decise di percorrere quei 144 Km di cammino in piena estate e in soli tre giorni. Ormai è sempre più lontano dal socialismo, la sua fede si faceva sempre più forte e il grande pubblico lo identificava ormai come scrittore cattolico affermato. Dopo aver pubblicato il poema Eve il saggio Il denaro, due pesanti critiche al mondo contemporaneo, seppur in forme diverse, iniziò la sua riflessione sulla figura del Cristo, esaminandone Incarnazione e passione.
Tutta la concezione teologica e filosofica di Péguy si può riassumere con la seguente affermazione: «Il presente è il punto di passata del tempo». Questa è la riflessione con cui egli in Note conjointe sur M. Descarts et la philosophie cartesienne cercò di racchiudere tutta la concezione teologica legata all’Incarnazione del Cristo. In essa è racchiuso tutto lo stupore, che ha accompagnato Péguy nel corso della sua esistenza, legato alla contemplazione e al mistero dell’Incarnazione. Questa per Péguy non è più un fatto di fede, ma un dato biografico del Cristo, che come tale può essere solo contemplato. È una contemplazione non astrattiva che sa riconoscere nella realtà la presenza indiscutibile del Trascendente. Il verbo si è incarnato all’interno della finitezza e della miseria che connotano lo stato umano dell’essere. L’Incarnazione del Cristo è totalizzante, poiché presa nella sua pienezza ed esattezza, «Bisogna sempre considerare, l’abbiamo detto, che Gesù ha preso l’Incarnazione nella sua esattezza e nella sua pienezza. Senza alcuna limitazione o riserva. Senza alcuna prudenza o precauzione fraudolenta». Continua Péguy dicendo che il Cristo con il suo gesto ha rivoluzionato «le limitazioni che sono proprie dell’uomo» . L’Incarnazione è un evento che è accaduto nel presente, che ha un luogo e un tempo ben preciso, e che come tutti gli eventi sottostà alle leggi dello scorrere del tempo.
Dunque, per Péguy, l’Incarnazione è un evento storico, che può essere contemplato come tale, ma non può essere oggetto di discussione. L’Incarnazione è il dato biografico per eccellenza della vita del Cristo. Nel presente (storico) finito è passato e si è incarnato l’infinito. La vita del Cristo è la storia del figlio di Dio, che però può essere raccontata, poiché è la storia del Dio che si è fatto uomo tra gli uomini, che è dunque divenuto oggetto storico. Essendo uomo tra gli uomini, essendosi fatto toccare, conoscere e vedere, ha permesso che la sua vita fosse raccontata. L’infinito diviene storia incarnando la finitezza umana. I Vangeli sono perciò le biografie del Cristo, «I Vangeli sono per Gesù ciò che i Processi sono per Giovanna d’Arco», sono dunque testimonianza storica. Quelle dei Vangeli non sono profezie compiute in modo determinato, poiché esse sono passate attraverso le libere scelte del Cristo, che in quanto uomo poteva scegliere ciò che volesse. «Appartiene all’ordine dell’uomo e dell’avvenimento, il passaggio dalle profezie ai Vangeli», continua poi «I Vangeli non sono le profezie avvenute, sono le profezie realizzate», attraverso la scelta, poiché come egli spesso sottolinea, il Cristo era libero anche di non realizzarle. La grandezza del Cristo sta proprio nel mantenimento delle profezie. Secondo Péguy, la profezia e il suo mantenimento non possono essere concepite come un prima e un dopo, in uno schema cronologico, ma sono una scelta immanente del libero arbitrio del Cristo, in quanto uomo. Dunque, per Péguy, l’Incarnazione fu un fatto storico che può solo essere contemplato e i Vangeli sono la biografia della vita e delle scelte del Cristo. Di seguito sono riportate le poesie e gli estratti dei poemi che meglio racchiudono il suo credo, il suo essere e la sua profonda religiosità:
Sono nella stanza uguale
L’amore non svanisce mai.
La morte non è niente, io sono solo andato nella stanza accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Datemi il nome che mi avete sempre dato.
parlatemi come mi avete sempre parlato.
Non usate un tono diverso.
Non abbiate un’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato,
senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non si è spezzato.
Perchè dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perchè sono fuori dalla vostra vista?
Io non sono lontano,
sono solo dall’altro lato del cammino.
La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi sorprende.
La fede non è sorprendente.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle.
In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare.
Nell’universo delle mie creature.
Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle.
Nella calma valle.
Nella quieta valle.
Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell’uomo.
Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli.
Nell’uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini.
Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini. Perché i bambini sono più creature mie.
Che gli uomini.
Non sono ancora stati disfatti dalla vita.
Della terra.
E fra tutti sono i miei servitori.
Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell’azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte.
Ora io risplendo talmente nella mia creazione.
Sulla faccia delle montagne e sulla faccia della pianura.
Nel pane e nel vino e nell’uomo che ara e nell’uomo che semina e nella mietitura e nella vendemmia.
Nella luce e nelle tenebre.
E nel cuore dell’uomo, che è ciò che di più profondo v’è nel mondo.
Creato.
Così profondo da esser impenetrabile a ogni sguardo.
Tranne che al mio sguardo.
Nella tempesta che scuote le onde e nella tempesta che scuote le foglie.
Degli alberi della foresta.
E al contrario nella quiete d’una bella serata.
Nelle sabbie del mare e nelle stelle che son sabbia nel cielo.
Nella pietra della soglia e nella pietra del focolare e nella pietra dell’altare.
Nella preghiera e nei sacramenti.
Nelle case degli uomini e nella chiesa che è la mia casa sulla terra.
Nell’aquila mia creatura che vola sui picchi.
L’aquila reale che ha almeno due metri d’apertura d’ali e fors’anche tre.
E nella formica mia creatura che striscia e che ammassa miseramente.
Nella terra.
Nella formica mio servitore.
E fin nel serpente.
Nella formica mia serva, mia infima serva, che ammassa a fatica, la parsimoniosa.
Che lavora come una disgraziata e non conosce sosta e non conosce riposo.
Se non la morte e il lungo sonno invernale.
(…)
Io risplendo talmente in tutta la mia creazione.
Nell’infima, nella mia creatura infima, nella mia serva infima, nella formica infima.
Che tesaurizza miseramente, come l’uomo.
Come l’uomo infimo.
E che scava gallerie nella terra.
Nel sottosuolo della terra.
Per ammassarvi meschinamente dei tesori.
Temporali.
Poveramente.
E fin nel serpente.
Che ha ingannato la donna e che perciò striscia sul ventre.
E che è mia creatura e che è mio servitore.
il serpente che ha ingannato la donna.
Mia serva.
Che ha ingannato l’uomo mio servitore.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
In tutto ciò che accade agli uomini e ai popoli, e ai poveri.
E anche ai ricchi.
Che non vogliono esser mie creature.
E che si mettono al riparo.
Per non esser miei servitori.
In tutto ciò che l’uomo fa e disfa in male e in bene.
(E io passo sopra a tutto, perché sono il signore, e faccio ciò che lui ha disfatto e disfo quello che lui ha fatto).
E fin nella tentazione del peccato.
Stesso.
E in tutto ciò che è accaduto a mio figlio.
A causa dell’uomo.
Mia creatura.
Che io avevo creato.
Nell’incorporazione, nella nascita e nella vita e nella morte di mio figlio.
E nel santo sacrificio della messa.
In ogni nascita e in ogni vita.
E in ogni morte.
E nella vita eterna che non avrà mai fine.
Che vincerà ogni morte.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero esser cieche.
La carità, dice Dio, non mi sorprende.
La carità, no, non è sorprendente.
Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non aver carità le une per le altre.
Come potrebbero non aver carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane di ogni giorno, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E da loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello.
Una così grande carità.
Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende.
Me stesso.
Questo sì che è sorprendente.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio.
Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina.
Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia.
Ed io stesso ne son sorpreso.
E dev’esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile.
E perché sgorga da una sorgente e come un fiume inesauribile
Da quella prima volta che sgorgò e da sempre che sgorga.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.
E quella volta, oh quella volta, da quella volta che sgorgò, come un fiume di sangue, dal fianco trafitto di mio figlio.
Quale non dev’esser la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti, ansiosa al minimo soffio,
sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario.
Che brucia in eterno nella lampada fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato la profondità dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato la profondità delle notti.
Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata per la creazione del mondo.
Da sempre che la mia grazia sgorga per la conservazione del mondo.
Da quella volta che il sangue di mio figlio è sgorgato per la salvezza del mondo.
Una fiamma che non è raggiungibile, una fiamma che non è estinguibile dal soffio della morte.
Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla.
Questa speranza bambina.
Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio.
Le tre virtù mie creature.
Mie figlie mie fanciulle.
Sono anche loro come le altre mie creature.
Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore che è come una madre.
La Speranza è una bambina insignificante.
Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.
Che gioca ancora con il babbo Gennaio.
Con i suoi piccoli abeti in legno di Germania coperti di brina dipinta.
E con il suo bue e il suo asino in legno di Germania. Dipinti.
E con la sua mangiatoia piena di paglia che le bestie non mangiano.
Perché sono di legno.
Ma è proprio questa bambina che attraverserà i mondi.
Questa bambina insignificante.
Lei sola, portando gli altri, che attraverserà i mondi passati.
Come la stella ha guidato i tre re dal più remoto Oriente.
Verso la culla di mio figlio.
Così una fiamma tremante.
Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi.
Una fiamma squarcerà delle tenebre eterne.
(…)
Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio.
Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile, e che probabilmente è la più gradita a Dio.
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Per non vedere, per non credere.
La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.
Per non amare il proprio prossimo, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie.
Dinanzi a tanto grido di miseria.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile
(…)
E quel che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione.
La piccola speranza avanza fra le due sorelle maggiori e su di lei nessuno volge lo sguardo.
Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada fra le sue due sorelle la piccola speranza.
Avanza.
Fra le due sorelle maggiori.
Quella che è sposata.
E quella che è madre.
E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle maggiori.
La prima e l’ultima.
Che badano alle cose più urgenti.
Al tempo presente.
All’attimo momentaneo che passa.
il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi che per le due sorelle maggiori.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella ch’è al centro.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina.
Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano.
Al centro.
Fra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non veder invece
Che è lei al centro a spinger le due sorelle maggiori.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne avanti negli anni.
Due donne d’una certa età.
Sciupate dalla vita.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è.
E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è.
E lei, lei ama ciò che sarà.
La Fede vede ciò che è.
Nel Tempo e nell’Eternità.
La Speranza vede ciò che sarà.
Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro della stessa eternità.
La Carità ama ciò che è.
Nel Tempo e nell’Eternità.
Dio e il prossimo.
Così come la Fede vede.
Dio e la creazione.
Ma la Speranza ama ciò che sarà.
Nel tempo e per l’eternità.
Per così dire nel futuro dell’eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole.
Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
Che la tengono per mano,
La piccola speranza.
Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle,
E a far camminare tutti quanti,
E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola.
A cura di Riccardo Renzi