Riscoprire i poeti

Baudelaire e il male interiore | L’Altrove

Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo , con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie . Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali, fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi.
Les fleurs du mal, sono il suo capolavoro per eccellenza, una raccolta di liriche suddivisa in sei parti: Noia e Ideale, Quadri parigini, Il vino, I fiori del male, Rivolta, La morte. Esse costituiscono l’unità delle riflessioni del poeta. Sono un organismo di tenebrosa e profonda unità, con spiragli di ciceroniana saccenza, più propri di un oratore che di un poeta. Al momento della stesura, non vi fu volontà architettonica, ma fu guidato da l’esigenza di raccontare con modalità stratigrafica di opposizione: Noia e Ideale, Vita e Morte, Rivolta e Conservatorismo.

Tra foreste di simboli s’avanza
La Natura è un tempio in cui pilastri vivi
a volte emettono confuse parole;
l’uomo, osservato da occhi familiari,
tra foreste di simboli s’avanza.

Come lunghi echi che di lontano si confondono
in una unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,
dolci come oboi, verdi come prati,
ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,
come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino
e cantano l’estasi dello spirito e dei sensi.

In Baudelaire troviamo sempre un intimo rapporto con la natura, derivante dagli studi che egli fece su di essa, dallo studio della luce in campo pittorico, a quello sonoro. In lui inoltre è sempre presente, anche se a volte celato nell’ombra, lo Spleen, termine inglese che indica una forma malinconica e dolorosa di noia, di cui è vittima fin dalla tenera età il poeta. Questo sentimento può prendere forme diverse, legate a differenti luoghi chiusi, quali tombe e prigioni.

Spleen

Quando il cielo basso e oppressivo pesa come un coperchio
sull’anima che geme in preda a lunghi affanni,
e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,
una luce nera più triste di quella delle notti;
quando la terra si è trasformata in un’umida prigione,
dove la Speranza, come un pipistrello,
va sbattendo contro i muri la sua ala timida
e picchiando la testa sui soffitti marciti;
quando la pioggia distendendo le sue immense strisce,
imita le sbarre di una grande prigione,
e un popolo muto d’infami ragni
tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,
a un tratto delle campane sbattono con furia
e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,
simili a spiriti erranti e senza patria,
che si mettono a gemere ostinatamente.
– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,
sfilano lentamente nella mia anima;
vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,
pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero.

Nel componimento sono posti in parallelo lo spazio esterno e quello interiore del poeta, entrambi rappresentati come prigioni dalle quali ogni tentativo di fuga risulta vano. Nella prima quartina il cielo è paragonato a un “coperchio” che schiaccia l’animo del poeta, già oppresso da dolore e preoccupazioni, e che porta sulla terra oscurità e tristezza. Nella seconda quartina la terra diventa una “prigione”, nella quale non c’è spazio per la Speranza, che è paragonata a un pipistrello che sbatte da ogni parte poiché non trova il modo per uscire. Il corpo è sempre concepito come prigione dell’anima, mentre la terra come prigione dell’uomo. In tutta la sua vita Baudelaire, proprio come Rimbaud e Campana, dopo di lui, si sentirà un estraneo tra gli uomini, un migrante errante, senza patria e senza meta.

A cura di Riccardo Renzi.

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