Oggi vi presentiamo un altro giovane: Pietro Mallegni. Ventiduenne di Massa Carrara, Pietro ha già pubblicato due raccolte e a breve darà alle stampe la terza dal titolo Neurocidio.
Ve lo presentiamo con questa breve intervista.
Grazie Pietro. Quando hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere all’età di 12 anni. Scrivevo sopratutto piccole poesie e piccoli atti unici di teatro.
Ti sei mai chiesto cosa ti fa scrivere in versi? Quale risposta ti sei dato?
Sovente mi sono posto questa domanda; credo che sia dovuto a un mio mancato senso di adattamento alla vita e a ciò che mi circonda, tale reazione al mondo mi riempie di dubbi e tristezza, che riesco a immolare nei versi attraverso piccoli momenti di rara emozione del quotidiano, che, magari mi sorprendono per questioni di bellezza o delicatezza. Esempio: la strana eclissi che vi può essere tra una bolla di sapone, lanciata a mezz’aria dai bambini, e il sole.
“Far poesia vuol dire riconoscersi” scrisse Sergio Solmi. Sei d’accordo con questa frase? Cosa è per te fare poesia?
Pienamente d’accordo. Credo che sia bene scoprirsi tramite i versi non solo come individuo, ma come sistema emozionale e sociale di cui l’uomo può essere capace o incapace. La poesia è una sorta di confessione vergognosa, da fare al se stesso e, in secondo luogo, agli altri; un segreto prezioso codificato dietro alle parole che custodisce un valore, per noi, inappuntabile, di quello che possiamo essere o possiamo non essere; oltre a questo, fare poesia deve essere anche un redimersi o un liberarsi di sentimenti o idee che, immortalate sul foglio, siamo sicuri possano non toccarci più.
Ti vedi ancora scrittore di versi tra venti o trent’anni?
Non saprei, effettivamente credo di sì, magari molto meno produttivo, con il tempo, credo che siano sempre meno le rarità da descrivere in poesia, ciò non toglie che continuerò sicuramente a scrivere, forse, in altre forme.
Ecco tre sue poesie:
Silenzio
Poche gocce,
si sforzano
d’affaticare
l’oceano, cadendovi sopra.
Tuoni di nero incanto
macchiano i miei cieli,
dove di notte, le stelle,
non cadono nemmeno più;
un buio di persone m’avvolge.
Nei miei occhi vedo
vaneggiar la stessa
tua debolezza, che
ti ha portato a chiuderli,
per sempre.
Ed è la tua mancanza,
che mi ha portato ad odiarti
d’un amore che non conosco.
Purpurea
Pomeriggio caldo
d’affanno, con la fatica,
che, ancora sulle labbra,
si leviga le mani.
Uno sguardo:
e le parole si fecero inutili.
E smettemmo di dirci
che domani sarebbe
stato meglio.
Lo sperduto
Pace sui colli,
scioglie la neve
ancora fresca di cielo.
Le case del paese,
offrivano riparo
a porte socchiuse.
Indifferente,
al freddo fuori,
non trema neanche una,
una delle mie foglie,
al gelido vento di questa terra,
che da anni si trascina,
verso un vuoto domani.
Mi piace il suo modo di scrivere.
Ci fa molto piacere!