Le Poete Streghe: Follia, Margine e Sovversione nella Poesia del Novecento: Plath e Sexton | L’Altrove
Le Poete Streghe: Follia, Margine e Sovversione nella Poesia del Novecento: Plath e Sexton | L’Altrove

Le Poete Streghe: Follia, Margine e Sovversione nella Poesia del Novecento: Plath e Sexton | L’Altrove

PRIMA PUNTATA: Le Streghe Americane

La Strega come Archetipo della Poeta Emarginata

Nella storia della letteratura occidentale, la figura della strega ha sempre rappresentato un potente simbolo di trasgressione, alterità e pericolosità femminile. La donna che possiede un sapere autonomo, che parla con voce propria, che rifiuta i ruoli tradizionali, è stata storicamente demonizzata come maleficia, creatura al confine tra umano e sovrannaturale, tra ragione e follia. Non sorprende dunque che la critica letteraria del Novecento, di fronte a voci poetiche femminili radicali, disturbanti, autentiche, abbia utilizzato – consapevolmente o meno – lo stesso repertorio immaginario che nei secoli passati aveva giustificato la caccia alle streghe.

Quattro poete del secondo Novecento incarnano in modo paradigmatico questa figura della “poeta-strega”: Sylvia Plath (1932-1963) e Anne Sexton (1928-1974) negli Stati Uniti, Amelia Rosselli (1930-1996) e Alda Merini (1931-2009) in Italia. Donne la cui biografia è stata segnata dalla malattia mentale, dall’internamento psichiatrico, dal suicidio; donne la cui opera è stata a lungo ridotta alla dimensione patografica, letta come sintomo piuttosto che come arte. La critica le ha spesso definite “folli”, “isteriche”, “eccessive”, utilizzando un linguaggio che riecheggia quello dei processi alle streghe.

Eppure, proprio attraverso questa condizione di marginalità e alterità, queste poete hanno elaborato una lingua capace di dire l’indicibile, di attraversare le zone d’ombra dell’esperienza femminile, di sovvertire l’ordine simbolico patriarcale. Il presente saggio indaga come queste quattro autrici abbiano consapevolmente rivendicato e risemantizzato l’immaginario della strega, trasformandolo da stigma a emblema di resistenza, da maledizione a benedizione poetica.


Sylvia Plath: La Strega che Brucia e Rinasce

L’immaginario della strega nell’opera di Plath

Sylvia Plath è forse la figura più emblematica della “poeta maledetta” del Novecento angloamericano. La sua morte per suicidio nel febbraio 1963, a soli trent’anni, ha contribuito a cristallizzare un’immagine romantica e tragica che ha a lungo oscurato la complessità della sua opera. Tuttavia, un’analisi attenta rivela un uso deliberato e sofisticato dell’immaginario della stregoneria come metafora della condizione femminile e della creazione poetica.

La poesia Witch Burning (1962) costituisce uno dei testi più espliciti in questo senso. Il componimento mette in scena il rogo delle streghe come allegoria della persecuzione che la donna “diversa” subisce nella società. La voce lirica si identifica con la strega condannata al rogo, ma questa identificazione non è passiva: attraverso il fuoco purificatore, la donna-strega rinasce trasformata. L’immagine della combustione diventa metafora della trasformazione poetica, del processo alchemico che dalla sofferenza produce bellezza e verità.

Come osserva la critica, Plath utilizza l’immagine del corpo in fiamme che prefigura la combustione sul rogo, ma questa combustione non è solo distruzione: è anche potere magico innato, capacità di creare fuoco e usarlo contro i persecutori. Il fuoco diventa così simbolo ambivalente di vittimizzazione e di potenza.

In altre poesie di Ariel (1965), come Lady Lazarus e Daddy, Plath sviluppa ulteriormente questa dialettica tra vittima e vendicatrice. La voce poetica non è semplicemente oggetto di violenza, ma si appropria della propria morte per trasformarla in spettacolo, in performance, in minaccia: “Out of the ash / I rise with my red hair / And I eat men like air” (“Dalla cenere / risorgo con i miei capelli rossi / E divoro gli uomini come aria”). L’immagine è quella della fenice, ma anche della strega che, lungi dall’essere annientata dal rogo, ne esce rafforzata e terribile.

La ricezione critica: tra patografia e archetipi

La critica su Plath è stata a lungo dominata da interpretazioni biografiche e psicologizzanti. Alcuni l’hanno vista come schizoide, portatrice di un desiderio di morte; altri come vittima della brutalità maschile. Queste letture riduttive hanno spesso impedito di cogliere la complessità formale e simbolica della sua opera.

Studi più recenti hanno esplorato la presenza di figure femminili legate alla cultura popolare e al grottesco, ispirate alle tradizioni di stregoneria e magia. Gli archetipi della strega, del vampiro e di altri mostri presenti nella poesia di Plath sono influenzati da una tradizione culturale in cui il corpo femminile è connesso al concetto di morte e di grottesco.

Questa prospettiva permette di leggere Plath non come una donna semplicemente malata o vittimizzata, ma come un’artista consapevole che utilizza strategicamente l’immaginario del mostruoso e del magico per articolare una critica feroce del patriarcato e per rivendicare uno spazio di potere femminile al di fuori delle norme sociali.


Anne Sexton: “Her Kind” – La Rivendicazione della Diversità

La poesia come confessione e come stregoneria

Se Plath rappresenta la strega che brucia e rinasce, Anne Sexton incarna la strega che dichiara orgogliosamente la propria diversità. Il suo componimento più celebre, Her Kind (La Sua Specie), pubblicato nella raccolta d’esordio To Bedlam and Part Way Back (1960), è diventato un manifesto della poesia femminista.

La poesia si apre con un’identificazione immediata e provocatoria: “I have gone out, a possessed witch, / haunting the black air, braver at night” (“Sono uscita, una strega posseduta, / infestando l’aria nera, più coraggiosa di notte”). Il termine “possessed” è ambiguo: può significare tanto “posseduta” (da forze demoniache) quanto “in possesso di” (potere, autonomia). La strega di Sexton è sia vittima che detentrice di potere.

Ogni strofa presenta una diversa incarnazione della donna “diversa”: la strega che vola nell’oscurità, la donna che trasforma la caverna domestica in spazio magico, infine la martire condotta al rogo che “non si vergogna di morire”. Il refrain – “A woman like that is not a woman, quite. / I have been her kind” (“Una donna così non è proprio una donna. / Io sono stata della sua specie”) – sottolinea come queste figure femminili siano considerate dalla società come devianti, anormali, mostruose.

Come ha osservato la critica, Sexton utilizza la persecuzione delle streghe come analogia per l’oppressione delle donne in una società patriarcale. La poesia fa riferimento al dolore dello scrivere poesia come la sua, spogliandosi con sfida, il che risulta in fiamme. Fu pesantemente criticata per le intimità crude e smoderate della sua opera.

La “folle” come profeta: autobiografia e persona

Sexton ha sempre rifiutato una lettura strettamente autobiografica della sua opera, nonostante l’etichetta di poeta “confessionale”. La sua poesia opera attraverso la costruzione di personae, maschere retoriche che permettono di articolare esperienze che trascendono l’individuale per farsi archetipiche.

La figura della strega diventa così un dispositivo retorico per esplorare diverse facce dell’esperienza femminile: la solitudine, la ribellione domestica, il martirio sociale. Ma diventa anche metafora del fare poesia. Sexton chiamò il suo gruppo musicale “Her Kind” e questa poesia apriva regolarmente le sue letture pubbliche: era il suo “signature poem”, la sua dichiarazione di poetica.

La critica ha notato come le poete confessionali donne si sentissero eccentriche nella loro ricerca di identità, in contrasto con i poeti confessionali maschi. Questa posizione eccentrica, marginale, è precisamente ciò che la figura della strega simbolizza e rivendica. La strega è colei che sta ai margini, che abita gli spazi liminali, che parla una lingua altra.


Poetica del Margine: Follia, Femminilità , Sovversione

La confessional poetry come pratica politica

Le quattro poete qui considerate sono associate alla “confessional poetry”, corrente sviluppatasi negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta che portava nella poesia temi tabù: la malattia mentale, la sessualità, il corpo femminile, il trauma personale.

Tuttavia, definire semplicemente “confessionale” la poesia di queste autrici ne riduce la portata. Come ha osservato Adrienne Rich, “il personale è politico”: ciò che appare come confessione individuale è in realtà testimonianza di oppressioni strutturali, di violenze sistemiche.

Inoltre, il termine “confessionale” è stato usato come aggettivo dispregiativo applicato sproporzionatamente alla poesia scritta da donne. La scrittura maschile che esplora temi personali viene considerata universale e filosofica, quella femminile viene ridotta a sfogo emotivo.

In realtà, poete come Plath, Sexton, Rosselli e Merini compiono un’operazione letteraria estremamente sofisticata: utilizzano la materia autobiografica per costruire personae poetiche complesse, per elaborare strutture simboliche e mitologiche, per sviluppare un linguaggio che trascende l’individuale per farsi archetipico e politico.

Il corpo femminile come campo di battaglia

Un elemento centrale nella poetica di queste autrici è l’attenzione al corpo femminile come luogo di oppressione e di resistenza. Inscrivere il corpo nel verso emerge frequentemente da un’interazione complicata tra ridefinizione positiva di sé e confessione del trauma.

Plath esplora l’immaginario relativo ai genitali femminili, alla fertilità, alle mestruazioni, alla maternità. Sexton celebra i dettagli fisici della femminilità, nominando mestruazioni, masturbazione, incesto, adulterio, aborto. Rosselli indaga il rapporto tra soma e linguaggio, tra corpo sofferente e parola poetica. Merini scrive dell’esperienza del manicomio come violenza sul corpo: elettroshock, fascette, stupro.

Tutte queste tematiche erano considerate oscene, specialmente se trattate da donne. Come ha osservato Maxine Kumin a proposito di Sexton, scriveva apertamente di argomenti che le convenzioni non abbracciavano come appropriati per la poesia. Il fatto stesso di nominare queste esperienze corporee costituiva un atto sovversivo.

La follia come epistemologia alternativa

L’aspetto forse più radicale della poetica di queste autrici è la rivendicazione della follia non come deficit cognitivo, ma come forma alternativa di conoscenza. Come ha scritto Merini, quando qualcuno trova una persona che parla troppo piano o che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e così nascono i pazzi. Perché la pazzia non esiste, esiste soltanto in quel terrore che abbiamo tutti di perdere la nostra ragione.

La follia diventa così non una condizione oggettiva, ma una costruzione sociale, un’etichetta che la società applica a chi non si conforma. E per le donne, storicamente, la “follia” è stata spesso semplicemente la manifestazione di un’autonomia, di una voce propria.

In questo senso, la figura della strega – colei che veniva bruciata per il suo sapere autonomo, per la sua devianza dalla norma femminile – diventa la perfetta metafora di questa dinamica. L’allegoria della strega si trova spesso nelle opere di queste poete: la strega è la donna che non si conforma, che abita i margini, che parla una lingua altra.

Rivendicare la posizione della “strega” o della “pazza” significa rivendicare il diritto a un’epistemologia alternativa, a un modo diverso di vedere e dire il mondo. Significa affermare che la presunta “follia” può essere in realtà una forma di lucidità più profonda.


Nella seconda e ultima puntata: Amelia Rosselli e la lingua della follia come sperimentazione radicale; Alda Merini e il manicomio come “terra santa”; il corpo elettrico e la maternità impossibile; linguaggi della devianza; prospettive comparative; l’eredità delle “streghe” nella poesia contemporanea.

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