Recensione: “Maniere nere” di Isabella Leardini | L’Altrove
Recensione: “Maniere nere” di Isabella Leardini | L’Altrove

Recensione: “Maniere nere” di Isabella Leardini | L’Altrove

Con Maniere nere (Mondadori, 2025), Isabella Leardini compie una svolta decisiva nel panorama della poesia italiana contemporanea, realizzando un’opera di straordinaria coerenza formale e profondità speculativa. Il titolo stesso, mutuato dalla tecnica calcografica in cui «il visibile si mostra per sottrazione», costituisce non una semplice metafora ma il principio strutturante dell’intera raccolta: un rovesciamento epistemologico che fa dell’assenza il fondamento della presenza, del buio la condizione della rivelazione.

Struttura e tensione compositiva

La raccolta si articola in sette sezioni (Maniere nere, Danza delle conchiglie, I subacquei, Le alghe, Al buio dell’ala, La fortuna, cui si aggiunge l’epilogo La giustizia della neve), ciascuna delle quali esplora una particolare declinazione del rapporto tra vita e morte, tra generazione e dissoluzione. La struttura non è meramente tematica ma risponde a una precisa strategia compositiva: ogni sezione rappresenta un diverso grado di immersione in quella dimensione acquorea e liminale che costituisce il vero spazio ontologico della raccolta.

Fin dall’esordio, Leardini istituisce un territorio poetico popolato da presenze paradossali: «L’albero dei morti bambini / più splendente fiorisce ogni mese». L’ossimoro non è qui figura retorica ornamentale ma necessità ontologica: i «morti bambini» non sono semplicemente i defunti, ma esistenze sospese in una condizione di potenzialità irrealizzata, «spietata infanzia dei non vissuti / che guardano stupiti i non più vivi». La poeta instaura così un regime di ambiguità produttiva in cui le categorie di vivo/morto, nato/non nato, presente/assente vengono costantemente rimesse in discussione.

La fenomenologia dell’incompiuto

Il motivo dei bambini morti o non nati attraversa l’intera raccolta come una vena carsica, emergendo con particolare intensità nella sezione d’apertura. Non si tratta di un mero esercizio elegiaco né di una commemorazione sentimentale: la poeta costruisce piuttosto una vera e propria fenomenologia dell’incompiuto, una riflessione sulla condizione di chi «Sono come un riflesso di sole / aria che si muove e non si vede ombra». Questi «perduti vivi nell’enigma» non abitano il regno dei morti ma uno spazio intermedio, una soglia perennemente oscillante: «A un battito dalle mani / che non arrivano a toccare le mani / a un passo dalla polvere dei piedi».

La dimensione domestica – le stanze, le porte, gli stipiti – diviene il teatro di questa coabitazione impossibile. «La vecchia tenda che divide la casa / ad ogni piega è piena di spiriti / ad ogni piega si aprono stanze» introduce una topografia dell’invisibile che trasforma lo spazio quotidiano in una dimensione porosa, permeabile alle presenze altre. È significativo che questi spiriti infantili mantengano caratteristiche umanissime: «altri sono bambini, gli arrabbiati / quelli che non mi vogliono parlare». L’antropomorfizzazione non è regressione fantastica ma riconoscimento di una soggettività che persiste oltre il limite biologico della vita.

Dalla conchiglia alla stella marina

La seconda sezione, Danza delle conchiglie, costituisce forse il momento di maggiore originalità formale dell’opera. Leardini sviluppa qui un’estesa meditazione sul tema del guscio vuoto, della forma che sopravvive al suo contenuto organico. Le conchiglie diventano emblema di una condizione esistenziale fondamentale: «Le nostre collezioni di piccole morti / brillano ad asciugarsi vuote / corpi leggeri trasformati nel calco / che li ospitava solo per poco».

L’analogia che la poeta istituisce è straniante e illuminante: come le conchiglie sono il negativo degli organismi che le abitavano, così «di noi restassero bellissimi / i cappotti, i cappelli, gli ombrelli». L’inversione tra contenitore e contenuto, tra accidentale ed essenziale, rivela la precarietà della nostra identificazione con il corpo organico. La «forma perfetta di conchiglia nera» diviene «Forma perfetta di conchiglia nera / può raccogliere il senso del vuoto», trasformando il negativo in positivo, l’assenza in presenza.

Particolarmente significativa è la riflessione sulle perle, «Madreperla non genera ostriche / ma solo infeconda perla / liscia ipotesi da infilare al collo». La perla, prodotto dell’irritazione, corpo estraneo incistato e trasfigurato, rappresenta qui un’altra modalità del rapporto tra generazione e infecondità: «Perle opache, non sempre / tonde, non sempre perfette / lacrime salate del mare». La serialità imperfetta delle perle, «troppo piccole per essere bambine / sono solo desideri agli angoli delle case», introduce una riflessione sulla molteplicità delle forme incompiute del desiderio generativo.

La botanica dell’impossibile

La terza sezione, I subacquei, sviluppa un’articolata metafora floreale che si dipana attraverso una serie di “fiori” impossibili o paradossali. «L’albero dell’aria non mette fiore / rossi petali senza colore / che hanno perso ogni allegria» apre una sequenza in cui il vocabolario botanico viene sistematicamente decostruito: il «fiore del non lo so», il «fiore affondato nel bicchiere», la «rinuncia stellata di magnolia». Ogni figura vegetale diviene allegoria di una condizione esistenziale: l’innocenza, il fallimento, la rinuncia.

Di particolare densità è la poesia «Fiore della mia fronte»: «bianco di disperazione / unica possibile fioritura / che nel mio corpo mette radice». Il corpo umano stesso diviene terreno di una fioritura aberrante, in cui il negativo (la disperazione) genera paradossalmente una forma di bellezza. La domanda che attraversa questa sezione – «in che modo fiorire» – non trova risposta consolatoria ma si apre a una molteplicità di soluzioni impossibili: «Noi siamo nube sfatta di pensieri / che non sanno diventare temporale / abbiamo un fiore che muore nel bicchiere / e pretende piuttosto un fondale / dove far rifiorire tempesta».

Il Panegirico delle suicide: sezione Le alghe

La quarta sezione costituisce il momento di massima tensione drammatica dell’opera. Dedicata «a Virginia, Mariagloria, Antonia, Sylvia e tutte le altre», Le alghe si configura come un dittico complesso: da un lato, una meditazione sulla misteriosa “alga orientale” che negli anni Novanta circolava tra le adolescenti come oggetto di una catena dell’amicizia; dall’altro, un polittico dedicato al destino di quattro grandi figure della letteratura femminile novecentesca morte suicide.

La scelta di organizzare le morti secondo i quattro elementi classici (acqua, aria, terra, fuoco) potrebbe apparire schematica, ma Leardini la rivitalizza attraverso un’analisi fenomenologica che restituisce a ciascuna modalità del morire una sua specifica intenzionalità. «Le ragazze morte per acqua / alla fine non si sono buttate / un solo tuffo al culmine del ponte. / Sono scese passo passo dall’argine»: il suicidio per annegamento viene qui descritto non come gesto impulsivo ma come processo graduale, deliberato, «passo dopo l’altro», che implica una particolare relazione con il proprio corpo destinato a farsi «pietra / che va a fondo perduta e intera».

Le «ragazze morte per aria», al contrario, sono caratterizzate dalla contraddittorietà: «vogliono un colpo di scena calibrato». La caduta dall’alto richiede «misurabile certezza di morire», una precisione che le distingue dalle altre modalità. Significativamente, Leardini nota che «Hanno perso l’ultimo gradino / sono morte nella prova generale / che le avrebbe dovute salvare», suggerendo l’ambiguità costitutiva di ogni suicidio, sempre sospeso tra volontà ed errore.

Le «ragazze morte per terra» sono quelle che «vogliono scendere il primo gradino / fosse anche quello di una cantina», cercando una discesa, un’interiorizzazione, un farsi «conchiglia nel cemento». La loro è una morte per sottrazione progressiva, un farsi piccole, nascoste, invisibili. Infine, le «ragazze morte per fuoco» sono quelle che «hanno aspettato ogni giorno di bruciare», caratterizzate da un’intensità consumante: «erano cariche come fucili / ma i fucili sono troppo pesanti / anneriscono le dita più lievi».

Lingua e versificazione: tra frantumazione e coesione

Sul piano formale, Leardini dimostra una notevole capacità di modulare il proprio registro espressivo. La raccolta alterna misure brevi, asciutte, sentenziose, a componimenti di più ampio respiro, organizzati in strofe complesse. La versificazione è tendenzialmente libera ma non priva di ricorrenze ritmiche: l’endecasillabo e il settenario emergono frequentemente come misure privilegiate, conferendo al dettato una musicalità discreta, mai ostentata.

Particolarmente efficace è l’uso dell’anafora e della ripetizione, che conferiscono a molte poesie un andamento litanico, quasi incantatorio: «Aperta dimora di tutte le voci / spazio aperto per chi non trema […] Aperta strada che finisce male / aperta strada che finisce nel mare / al termine del sentiero più amato». La ripetizione non è qui ridondanza ma strategia di intensificazione semantica, modo per far risuonare la parola fino a farne emergere gli armonici nascosti.

Il lessico oscilla tra registro alto e basso, tra termini della tradizione lirica («fiamma», «riva», «calice») e vocaboli della quotidianità contemporanea. Questa oscillazione non produce dissonanza ma una particolare tensione produttiva: il linguaggio poetico si carica di una vibrazione particolare quando fa confluire i due registri, come in «Qualche volatile presagio messaggero / estinto molto prima del suo nome», dove l’astrattezza del «presagio» si concretizza nel «volatile» per poi nuovamente smaterializzarsi nell’«estinto».

Genealogie poetiche e costellazioni intertestuali

Leardini si inscrive consapevolmente in una tradizione poetica femminile che ha fatto della liminalità, della frammentazione e dell’incompiutezza i propri territori elettivi. Gli echi di Amelia Rosselli (nella frantumazione sintattica, nell’uso straniante della metafora), di Margherita Guidacci (esplicitamente citata in esergo), di Maria Luisa Spaziani (nella costruzione di un bestiario simbolico) sono evidenti ma mai pedissequi.

Più interessante è forse il dialogo che l’opera instaura con certa poesia europea del Novecento: il simbolismo acquatico richiama Valéry, la fenomenologia della morte in vita ha evidenti affinità con Celan, la meditazione sull’incompiuto dialoga con la Dickinson dei “morti vivi”. Ma Leardini non si limita a rielaborare questi materiali: li sottopone a una torsione originale, inserendoli in un contesto meditativo che è profondamente radicato nella sensibilità contemporanea.

Significativo è anche il riferimento esplicito a Michael Ende e al suo La storia infinita: la «Morte Multicolore», il leone Graogramàn, diviene figura di una morte che non è negazione ma trasformazione, passaggio da una forma all’altra dell’essere. «Un petalo per ogni anno / un ramo che non si muove»: la morte si fa qui principio di ordine, struttura che organizza il tempo.

Verso una metafisica dell’acquoreo

L’elemento acquatico attraversa l’intera raccolta non come semplice motivo tematico ma come vera e propria categoria ontologica. «A lungo siamo stati nel battito / di un’acqua che non era vera onda»: l’acqua amniotica, l’acqua della memoria prenatale, l’acqua come dimensione originaria a cui è possibile tornare. Ma è anche l’acqua della morte, della dissoluzione, del farsi informe: «Sarà bella fino all’ultimo momento, / risplendere è l’oltraggio di crollare».

Nella sezione conclusiva, La giustizia della neve, l’acqua si fa ghiaccio, cristallo, forma solidificata del fluido. «Siamo battito ghiacciato del lago / sotto la lastra liscia degli anni»: l’immagine del lago ghiacciato che continua a pulsare sotto la superficie introduce una nuova dialettica tra movimento e stasi, tra vita che persiste e apparenza di morte. La neve, nella sua molteplicità cristallina, diviene figura di una giustizia che non è retribuzione ma riconoscimento: «La giustizia che altrove si rivela / potrebbe assolvere ogni cristallo / che viva come noi mentre cade».

L’originalità di una voce necessaria

Maniere nere è quindi come un’opera di eccezionale maturità formale e densità concettuale. Isabella Leardini ha costruito un universo poetico rigorosamente coerente, in cui ogni elemento – tematico, formale, simbolico – concorre a definire un’unica, complessa meditazione sulla condizione di chi vive «a un battito» dalla morte, «a un passo» dal non essere.

L’originalità della raccolta risiede nella capacità di trasformare materie apparentemente elegiache o memoriali in occasioni di speculazione ontologica. Le figure dei bambini morti, delle conchiglie vuote, delle scrittrici suicide non sono oggetti di compianto ma strumenti euristici per indagare le modalità dell’essere al limite, dell’esistere nella soglia. In questo senso, Maniere nere rappresenta un contributo significativo non solo alla poesia italiana contemporanea ma alla riflessione filosofica sulla precarietà, sull’incompiutezza, sulla generazione mancata come dimensioni costitutive – e non semplicemente negative – dell’esistenza.

La raccolta dimostra inoltre come la poesia possa ancora essere luogo di un pensiero rigoroso e articolato, capace di confrontarsi con le grandi questioni esistenziali senza rifugiarsi né nell’astrattezza concettuale né nell’effusione sentimentale. Il «lavorare con l’invisibile» di cui parla Leardini nella sua nota introduttiva non è evasione nell’indeterminato ma costruzione paziente di una forma che possa accogliere e dare figura all’informe, che possa nominare senza tradire ciò che per sua natura sfugge alla nominazione.

Con quest’opera, Isabella Leardini si colloca ai vertici della poesia italiana contemporanea, confermandosi come una delle voci più necessarie e originali del nostro tempo. Maniere nere è destinata a rimanere come uno dei testi fondamentali per comprendere la sensibilità poetica del primo quarto del XXI secolo, con il suo peculiare sentimento della precarietà, della frammentazione, della vita che si dà sempre e soltanto come «vita non afferrata», eppure proprio per questo degna di essere cantata.

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