L’eccesso e l’assenza: la mistica poetica di Marina Cvetaeva | L’Altrove ,
L’eccesso e l’assenza: la mistica poetica di Marina Cvetaeva | L’Altrove ,

L’eccesso e l’assenza: la mistica poetica di Marina Cvetaeva | L’Altrove ,

L’opera di Marina Ivanovna Cvetaeva (1892-1941) costituisce uno degli apici più vertiginosi e problematici della lirica novecentesca, non soltanto nell’ambito russo ma nell’intero panorama della modernità poetica europea. La sua produzione si configura come un corpus testuale la cui ermeneutica richiede strumenti analitici capaci di attraversare molteplici dimensioni: quella linguistico-formale, quella esistenziale-biografica, quella storico-culturale e, non ultima, quella filosofica.

La formazione e il contesto culturale

Marina Cvetaeva nasce in un contesto familiare di straordinaria ricchezza intellettuale. Il padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, filologo e storico dell’arte, fondatore del Museo che oggi porta il nome di Puškin, rappresenta l’incarnazione della cultura umanistica russo-europea. La madre, Marija Mejn, pianista di talento, trasmette alla figlia una sensibilità musicale che si rivelerà determinante nella strutturazione ritmica e intonazionale della sua poesia. Questa duplice eredità – filologica e musicale – costituisce il sostrato genetico della scrittura cvetaeviana, caratterizzata da un’erudizione letteraria vastissima e da una straordinaria consapevolezza delle potenzialità sonore del linguaggio.

La formazione della giovane Marina avviene in un clima di cosmopolitismo culturale. I soggiorni all’estero, dovuti alla malattia materna, la espongono precocemente alla cultura europea, mentre le letture private – prioritarie rispetto agli studi formali, sempre travagliati e discontinui – rivelano un temperamento autodidatta e imperiosamente autonomo. Il carattere “ribelle” della Cvetaeva, più volte sottolineato dai suoi biografi, non è mera disposizione caratteriale ma espressione di una radicale indipendenza intellettuale che si tradurrà in una poetica anticonvenzionale e ostinatamente personale.

L’esordio e la prima stagione poetica

La pubblicazione a proprie spese, nel 1910, di Večernij al’bom (Album serale) costituisce un esordio precocissimo che attira immediatamente l’attenzione di figure centrali del panorama poetico russo, da Brjusov a Gumilëv, da Vološin a Mandel’štam. La lirica giovanile si caratterizza per l’adozione di “maschere” poetiche – l’adolescente pensosa, la fattucchiera, la zingara, la “regina delle bettole”, l’amante saffica, la vergine guerriera – che testimoniano una precoce consapevolezza della natura teatrale e performativa della scrittura poetica. Queste maschere, tuttavia, non costituiscono meri espedienti retorici ma rappresentano altrettante esplorazioni dell’identità femminile, in una prospettiva che anticipa tematiche che verranno sviluppate compiutamente nella maturità.

Gli anni moscoviti, segnati dal matrimonio con Sergej Jakovlevič Efron nel 1912 e dalla nascita della figlia Ariadna, vedono la pubblicazione di Volšebnyj fonar (Lanterna magica, 1912) e Iz dvuch knig (Da due libri, 1913). In questo periodo si consuma anche l’intenso rapporto amoroso con la poeta Sofija Parnok, che si protrae dal 1914 al 1916 circa. Questo legame, che lascia tracce profonde nella lirica cvetaeviana, testimonia l’apertura della poetessa a forme di eros che travalicano le convenzioni sociali e che preludono a quella concezione dell’amore come “eccesso”, come “esagerazione”, come ricerca di un “inaudito, mostruoso, miracolo” che costituirà il nucleo tematico centrale della sua opera matura.

Il periodo rivoluzionario e la guerra civile

La Rivoluzione d’Ottobre e la guerra civile rappresentano una cesura drammatica nell’esistenza della Cvetaeva. Il marito, arruolatosi nell’esercito dei volontari Bianchi, scompare per anni, lasciandola sola a Mosca con le due figlie in condizioni di estrema privazione. La morte per denutrizione della piccola Irina nel febbraio 1920 costituisce un trauma che segnerà indelebilmente la sua esistenza e la sua scrittura. In questo periodo, tuttavia, la produzione poetica non si arresta ma anzi si intensifica, assumendo connotazioni politiche e storiche. Il ciclo *Lebedinyj stan* (L’accampamento dei cigni), dedicato all’Armata Bianca, rappresenta una cronaca lirica dei “Torbidi” che insanguinavano il Paese, in cui la Cvetaeva si fa “disperata cronista” degli eventi, schierandosi apertamente dalla parte dei Bianchi con una passione che non conosce cautele o mediazioni.

Sul piano formale, i versi di questo periodo, raccolti in Versty (1921), manifestano una progressiva radicalizzazione stilistica. L’ellissi, la frantumazione sintattica, l’addensamento metaforico, l’uso spregiudicato dell’enjambement divengono tratti distintivi di una scrittura che mira a oltrepassare i limiti espressivi del linguaggio poetico convenzionale. La Cvetaeva elabora una prosodia personale in cui il ritmo si fa “indemoniato”, come ebbe a scrivere il marito Sergej Efron, mimando attraverso l’intonazione la “fisica, gestuale teatralità” di un processo catartico che procede per accumulo e intensificazione, senza consentire “pause, discese”.

L’emigrazione e la stagione di Dopo la Russia

Nel maggio 1922 la Cvetaeva lascia l’Unione Sovietica, dapprima per Berlino, poi per la Boemia, dove risiede fino al 1925, e infine per Parigi, dove vivrà fino al rimpatrio del 1939. L’emigrazione rappresenta per la poetessa una condizione di esilio non solo geografico ma ontologico. Privata delle sue radici russe, incapace di integrarsi pienamente nella cultura francese, osteggiata dalla comunità emigrata russa per le sue posizioni politiche ambigue e per il carattere “orgoglioso e intransigente”, la Cvetaeva sperimenta quella condizione di estraneità radicale che diverrà il tema dominante della sua ultima grande stagione poetica.

Posle Rossii (Dopo la Russia, 1928) rappresenta il vertice assoluto della sua creazione lirica. In questa raccolta, come sottolinea Serena Vitale nella sua introduzione, la poetessa abbandona le “vivide maschere” della giovinezza e si presenta “come leggera Psiche pronta al volo, ‘ospite alata’”, liberata “almeno nei versi, dalla zavorra della materia”. La geografia dell’assoluto che struttura questa raccolta si articola lungo le coordinate di “alto e basso, vetta e valle”. La montagna diviene il topos privilegiato, il luogo da cui risuona una voce che “inizia sempre dalla nota più alta, dall’epifania dell’esclamazione, dall’acme del sospiro e dell’urlo”. Non si tratta, tuttavia, di una fuga nell’astrazione: l’ascesa è “di conoscenza e rifiuto e non di cecità”, poiché “agli occhi dello scalatore la triviale mappa della realtà si rivela più netta, più nitida”.

Già nella lirica inaugurale della raccolta, “Valle spietata”, emerge la dimensione violenta e corporea dell’eros cvetaeviano:

Valle spietata.
Amore di umani.
Le mani: sale, luce.
Le labbra: pece, sangue.

La contrapposizione tra “valle” e “montagna” struttura un’opposizione metafisica: la valle è il luogo degli “amori di umani”, della corporeità, della materialità; la montagna è invece lo spazio dell’ascesi, della spiritualizzazione, della trasfigurazione poetica.

La poetica dell’amore come “arco teso”

Il nucleo generatore della poetica matura di Cvetaeva è costituito dalla riflessione sull’amore, inteso non come semplice tema lirico ma come categoria ontologica e gnoseologica. L’amore, per la Cvetaeva, è “arco teso” – immagine potentissima che condensa la tensione, la dinamicità, la violenza potenziale insita nell’eros. È “disagio”, come afferma nel Poema della fine, ovvero una condizione di permanente squilibrio, di impossibile quiete. Come dichiara esplicitamente: “Io, senza parlare: l’amore è arco / teso, disagio”. L’amore è “sutura, non benda”, ferita che si riapre continuamente, che non può essere rimarginata o nascosta.

La fenomenologia dell’amore cvetaeviano si articola in una dialettica complessa. Da un lato, vi è la pulsione verso l’unione assoluta, la fusione totale con l’amato; dall’altro, vi è la consapevolezza della necessaria impossibilità di tale unione negli “spazi terrestri”. Come confessa la stessa poetessa: “Per tutta la vita, di seguito, ho inondato di amore le persone sbagliate, quelle che nel mio mondo (l’unico che io stimi) erano più piccole, deboli, impari”. Gli uomini amati si rivelano invariabilmente “falsi simulacri di potenza, fragili idoli pronti a sgretolarsi sotto l’urto di un eccesso” che pretende dall’essere amato “totale abbandono”.

Nella lirica “Indizi terrestri”, questa dialettica tra corpo e anima, tra desiderio terrestre e aspirazione all’assoluto, trova espressione in versi di straordinaria densità:

Così, nella vita, tra fatiche quotidiane
e amori di una notte, scorderai l’amica
coraggiosa, il suono
dei suoi fraterni versi.

L’io lirico si autodefinisce come presenza “senza diritti”, “senza preventivi”, “senza pretese”, una sorta di eccedenza rispetto all’economia degli affetti umani, votata a una forma di amore che trascende il possesso e la reciprocità.

La dimensione epistolare e il sodalizio con Pasternak

Coerentemente con questa concezione, gli amori più profondi e duraturi della Cvetaeva si consumano “in absentia”, nello “spazio vuoto e alato dell’assenza”, nei “rapporti eterei epistolari”. Il lungo legame con Boris Pasternak, definito “fratello nella quinta stagione dell’anno, nel sesto senso, e nella quarta dimensione”, rappresenta l'”alleanza di cuori e di anime, sodalizio amoroso e poetico finalmente basato sulla parità della forza”.

Leggi l’articolo sul sodalizio poetico e amoroso tra Marina Cvetaeva e Boris Pasternak

Il ciclo I fili del telegrafo, a lui dedicato, è testimonianza di questa relazione radicalmente spirituale, in cui la distanza fisica diviene condizione necessaria per l’intensità del legame. I “fili del telegrafo” sono metafora della comunicazione poetica, del “cordame” che lega le anime attraverso gli spazi. L’immagine ha una forza visiva e sonora straordinaria:

Ripassata e respinta ogni strada
(e coi semafori – specialmente),
polifonia selvaggia
di scuole e disgeli… (un coro
intero in soccorso!), le maniche issando
come stendardi…
– senza pudore! –
rombano i lirici cavi
della mia altissima tensione.

La “altissima tensione” è quella elettrica dei cavi, ma anche quella emotiva della passione che si trasmette a distanza. Il paesaggio urbano diviene teatro di una comunicazione quasi telepatica, in cui i fili del telegrafo materializzano la possibilità di un contatto spirituale che non necessita della presenza fisica.

La dimensione profetica e visionaria di questo amore trova espressione in versi di straordinaria potenza evocativa:

Non negromante! Nel bianco libro
delle steppe ho appuntato lo sguardo!
In ogni luogo – raggio e luce –
saprò raggiungerti, e riportarti indietro!

L’io lirico si fa “maga”, capace di “raggiungere” l’amato attraverso il “respiro”, attraverso una forma di magia che prescinde dalla fisicità. L’amore diviene qui pura forza spirituale, capace di vincere le distanze e perfino la morte.

I poemi: architetture dell’eccesso

I grandi poemi della maturità – Poema della montagna (1924), Poema della fine (1924), L’accalappiatopi (1925) – rappresentano la massima espressione della capacità cvetaeviana di costruire architetture verbali complesse e stratificate. Il Poema della montagna si articola attraverso la verticalità topografica una metafisica dell’amore. La montagna è “argilla amara” che “si tormenta” nell’ora del congedo, è “ruffiana sacra” che indica il luogo dell’unione, è testimone silenzioso di un amore che aspira all’eccezione, che rifiuta i “quieti piaceri familiari”.

L’incipit del poema stabilisce immediatamente le coordinate spaziali e affettive:

Sussulto – e giù dal cuore il peso,
tutta nell’alto – l’anima!
Lasciami parlare del dolore.
Lasciami – della mia montagna.

Il movimento è ascensionale: il “peso” cade dal cuore, l’anima si solleva “nell’alto”. Ma questa ascensione non è liberatoria: è movimento verso il “dolore”, verso la consapevolezza della separazione. La montagna, paradossalmente, è il luogo dove l’amore si consuma proprio nell’atto di manifestarsi nella sua pienezza.

Il poema si struttura come una progressiva ascesa verso l’epifania dell’assenza, verso la consapevolezza che l’amore vero può esistere solo nella dimensione del ricordo trasfigurato:

Io non ti ricordo – a parte.
Dov’era il volto – bianco vuoto.
Senza lineamenti. Una lacuna, tu:
tutto. (L’anima fitta di ferite –
un solo squarcio.)

L’amato diviene “cerchio, pieno e intero”, “turbine intero, pieno stordimento”, presenza totale che per questo stesso motivo non può essere scomposta in “dettagli” o “lineamenti”. La memoria non può fissare i tratti individuali perché l’esperienza amorosa è stata totalizzante, ha riempito interamente lo spazio dell’esistenza.

Il Poema della fine porta alle estreme conseguenze la poetica della disgregazione e della perdita. La passeggiata di congedo degli amanti attraverso la città diviene Via Crucis, processione funebre, discesa agli inferi. Il dialogo tra i due è frammentato, ellittico, costruito per accumulazione di frasi spezzate:

«Non mi ami più?» – «Ti amo…»
«Non mi ami!» – «Ma sono distrutto,
sfinito, estenuato…»
E, scrutando il locale: «Questa
sarebbe la casa?» – «Le case
sono nei cuori.»

Il ponte – “ultimo ponte” – assume valore simbolico centrale: è il luogo della sospensione, dell'”eterno tra”, dello “intervallo di lucidità” in cui gli amanti sono ancora congiunti ma già separati:

L’ultimo ponte. (Non gli ridarò
il braccio, non riprenderò
il mio!) Qui si paga
l’estremo pedaggio.

La Cvetaeva elabora qui una fenomenologia minuziosa della separazione, registrando con precisione quasi clinica le sensazioni fisiche, i gesti, le parole. Il linguaggio si frantuma in esclamazioni, interrogazioni, ellissi. La sintassi mima la disgregazione dell’io lirico, che oppone alla violenza della separazione un’ultima, disperata rivendicazione di prossimità fisica:

Mi annido. Mi scaldo. Col corpo
mi stringo. Né fino a
né attraverso: intervallo
di lucidità.

La riflessione metatestuale: il poeta e la poesia

Parallelamente all’esplorazione dell’eros, la Cvetaeva sviluppa una complessa riflessione metaletteraria sulla natura della poesia e sulla condizione del poeta. La lirica *Il poeta* costituisce una sorta di manifesto poetico:

Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio.

Il poeta è colui che “prende la parola da lontano”, che percorre “le traverse vie dell’allusione”, che si muove in una dimensione temporale e spaziale radicalmente altra rispetto a quella comune. Il suo “è passo di cometa”, il suo “nesso” si situa “negli sparsi anelli della causalità”.

Il poeta è dunque essenzialmente trasgressore:

È quello che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,
che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza...

Questa concezione del poeta come essere marginale, estraneo alle logiche del mondo, trova la sua formulazione più radicale nei versi conclusivi della lirica:

Ci sono al mondo esseri superflui,
creature in più, aggiunte senza peso.
(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,
inquilini dei pozzi più neri.)

Il poeta appartiene alla categoria dei “paria”, degli esclusi, di coloro che “ripugnano anche al fango delle ruote”. Ma proprio questa condizione di esclusione è anche condizione di eccezionalità divina: “ma ai poeti, a noi poeti, / noi paria e pari a Dio – / è dato, straripando dalle rive, / rotti gli argini, rubare anche / le vergini agli dei”.

La fenomenologia del dolore e della gelosia

Tra i componimenti più intensi e drammatici di *Dopo la Russia* figura il “Tentativo di gelosia”, una delle liriche più celebri e problematiche dell’intera produzione cvetaeviana. Il testo si struttura come un interrogatorio serrato, una serie incalzante di domande retoriche rivolte all’amante che ha abbandonato l’io lirico per “l’altra”, per “la creatura semplice”:

Ditemi: come va con l’altra?
Meglio? meno grane? – Mano ai remi! –
Vana linea costiera s’assottiglia,
scompare la memoria estrema
di me, isola fluttuante

L’io lirico si autodefinisce come “regina” deposta dal trono, come presenza divina sostituita da una “creatura semplice”, “senza divinità”. La gelosia si carica qui di una dimensione metafisica: non è semplice rivalità sentimentale ma rivendicazione di una superiorità ontologica. L’amante ha tradito non semplicemente una donna ma un principio, ha scelto “la mediocrità immortale” contro l’eccesso, il “simulacro” contro l’assoluto:

Con la qualunque – come state
di che vivete, voi – mio eletto?
Mangiate – e dopo pranzo un sonnellino?
– Non lamentarti quando sarai sazio!…

Il sarcasmo diviene arma per mascherare il dolore, ma attraverso l’ironia traspare la ferita profonda, l’incomprensione radicale di fronte alla scelta dell’altro. La lirica si chiude con una domanda che rovescia la prospettiva, equiparando il dolore dell’io lirico a quello dell’amante:

In coscienza – sei felice?
No? In quel disastro senza dei
come stai, amore? È dura? Sì?
Come per me con l’altro?

La dimensione del dolore amoroso viene esplorata anche attraverso la lirica “Indizi”, che elabora una vera e propria sintomatologia dell’amore come sofferenza fisica:

Come spostando pietre:
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.

L’amore si manifesta come “pianto delle vene”, come “strappo / delle più fedeli corde vocali”, come “ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola”. La metaforica corporea raggiunge qui un’intensità quasi insostenibile, trasformando il sentimento in fenomeno fisiologico, in malattia che invade l’intero organismo.

Il ritorno e il silenzio

Il rimpatrio in Unione Sovietica nel giugno 1939 segna l’inizio della fase terminale dell’esistenza di Cvetaeva. Le aspettative di un ricongiungimento familiare vengono brutalmente infrante dagli arresti della figlia Ariadna (novembre 1939) e del marito Sergej Efron (arrestato quasi contemporaneamente, verrà fucilato nell’agosto 1941). Sottoposta a ostracismo, privata della possibilità di pubblicare, ridotta a sopravvivere grazie a sporadici lavori di traduzione, la Cvetaeva sperimenta l’isolamento più radicale.

Gli anni del ritorno sono segnati da un progressivo impoverimento non solo materiale ma anche creativo. La produzione poetica originale si riduce drasticamente; la Cvetaeva si dedica soprattutto a traduzioni, unico mezzo di sostentamento possibile. L’evacuazione a Elabuga, nell’agosto 1941, è l’ultimo atto di una tragedia che si compie il 31 agosto con il suicidio.

La fine di Cvetaeva pone interrogativi inquietanti sulla responsabilità della storia nei confronti dei suoi poeti. Una voce di straordinaria potenza e originalità viene ridotta al silenzio da una combinazione di forze storiche, politiche, sociali che si rivelano incompatibili con l’eccesso, con la dismisura, con la passione che costituiscono l’essenza stessa della sua poetica. Il suicidio non è gesto di disperazione privata ma atto che sigilla l’incompatibilità radicale tra la Cvetaeva e il suo tempo.

La contemporaneità di Marina Cvetaeva

L’opera di Marina Cvetaeva costituisce uno dei vertici assoluti della poesia novecentesca per la capacità di articolare in forme linguistiche di estrema originalità una riflessione sull’amore, sulla poesia, sull’esistenza che conserva una pregnanza filosofica inesauribile. La sua lezione rimane attuale non solo per le acquisizioni formali – la rivoluzione prosodica, l’invenzione di una sintassi ellittica e frammentaria, l’elaborazione di un lessico poetico che attinge simultaneamente al registro elevato e a quello colloquiale – ma soprattutto per la radicalità con cui ha posto la questione dell’assoluto nella modernità.

In un’epoca che tende alla mediazione, alla moderazione, al compromesso, la Cvetaeva rappresenta l’istanza dell’eccesso, della dismisura, della “esagerazione” come unica forma di autenticità possibile. La sua opera testimonia che la poesia non è ornamento della vita ma sua intensificazione, sua trasfigurazione, suo superamento. E che il poeta, lungi dall’essere figura marginale e residuale, rimane custode di quella dimensione dell’esperienza umana che resiste a ogni riduzione utilitaristica o strumentale: la dimensione dell’assoluto, dell'”inaudito, mostruoso, miracolo” che soltanto l’amore e la poesia possono ancora, forse, dischiudere.

La profezia contenuta nella lirica Lodefai piano! si è tragicamente avverata:

Giovani – amare.
Vecchi – scaldarsi.
E non c’è tempo – d’essere,
né dove cacciarsi.

La Cvetaeva non ha avuto “tempo d’essere”, né ha trovato “dove cacciarsi” in un secolo che non tollerava la sua voce.

Lode – fai piano!
Non sbattere le porte –
gloria!
Angolo
del tavolo – e gomito.

Scompiglio – basta!
Cuore – tranquillo!
Gomito e fronte.
Gomito e – testa.

Giovani – amare.
Vecchi – scaldarsi.
E non c’è tempo – d’essere,
né dove cacciarsi.

Anche una tana, ma –
da sola! Gocce
dai rubinetti,
strepito di sedie,

bocche che parlano
con la minestra
in bocca: «Grazie
per i bei versi».

Dei miei vicini
remoti, nessuno
indovina – che pena
per la mia testa!

Orchestra di vandali!
Fortezza o steppa –
il paradiso è dove
non parlano!

Il bottegaio – soldi.
Il dongiovanni – prede.
A Dio io chiedo
una stanza – qualunque –

un buco – da sola! –
un posto – per me! –
quattro pareti per
il silenzio.

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