Giovani Poeti

Giovani poeti: Matteo Cristiano | L’Altrove

Matteo Cristiano è il giovane autore che vi presentiamo oggi.
Studente fuori sede del corso magistrale in Filologia Moderna a Padova e classe 1997, Matteo potrebbe sembrare un poeta in erba, ma i suoi versi, il ritmo e il linguaggio usato ci colpiscono oltremodo.

Per conoscerlo nel miglior modo possibile, gli abbiamo fatto alcune domande.
Ecco di seguito la nostra intervista:

È un piacere Matteo. Prima domanda: ricordi quando hai iniziato a scrivere?

Ricordo la mia prima poesia, la prima volta che ho scritto qualcosa di compiuto, necessario, viscerale. La mia esile valle che dall’alto scruta il Lago di Como, i suoi monti, i miei sentieri, mi facevano cadere nella contemplazione estetica ogni volta che alzavo lo sguardo; ho un rapporto estremamente profondo e carnale con le mie montagne, e, quando 4 anni fa decisi di lasciarle per venire a studiare a Padova, scrissi anche io il mio “Addio ai monti”. Scrivevo su un tavolo di legno, poco lontano dall’alpeggio, con le sterpaglie ingiallite per l’incombente autunno, e il pensiero che avrei trovato muri e palazzi, alzando lo sguardo, mi atterriva, ma insieme schiudeva il germe di una svolta, di una pagina nuova, e così fu.

“Preferisco il ridicolo di scrivere poesie | al ridicolo di non scriverne.” Scrisse Wisława Szymborska. La poesia è sempre una necessità. Lo è anche per te?

C’è una parola che Heidegger sottolinea in una poesia di Holderlin: Heiliggenöthiget, “per sacra necessità”. La scrittura poetica mi accompagna da tutta la vita, come una chiamata. Essa si muove nel mio esserci e compenetra ogni movimento etico, ogni azione; per me è necessaria la poesia poiché in essa restituisco alla vita ciò che la vita genera nel mio spirito, nella mia essenzialità. In essa, cerco di corrispondere al mondo, allo spirito del mondo, che nella gettatezza dell’hic et nunc si manifesta attraverso innumerevoli sfumature, le sfumature del reale e del divenire. Necessito della poesia per concretizzare il mio dialogo con lo spirito, che passa in primo luogo dal dialogo con il mio spirito.

“Chiamo poeta colui che sente confusamente agitarsi dentro di sé tutto un mondo di forme e d’immagini” (De Sanctis). Cosa senti tu quando scrivi?

Tonio Kroger non sarebbe felice di questa domanda. In effetti, non credo sia importante ciò che sento mentre scrivo, che tuttavia si può tradurre in una sorta di ansia da prestazione, ricerca patologica della parola, del concetto compiuto. Ciò che, io credo, importa veramente, è l’esserci, non il sentire. Non ci ha ormai insegnato, la filosofia, che il sentimento è fallace, rappresentazione? No, va più a fondo del sentimento, la poesia. Si radica nel fondo dell’esistenza, si manifesta nel pensiero, e si traduce in parole studiate. L’ingenuità romantica non rispecchia più la contemporaneità, è utopico: “divieni, tu che sei, sii per essenza” dice Lukacs. Conta l’esserci, il vivere, conta l’istante della nostra coscienza, conta la quantità di ascolto che dedichiamo al mondo, alla realtà; se riusciamo ad ascoltare, se guardiamo attraverso il velo, allora sarà poesia, sarà pura contemplazione di questo immenso e complesso dono che è la vita.

Se dovessi consegnare il Nobel per la letteratura ad un poeta vivente, a chi lo daresti?

Temo di dover rifiutare un quesito che supera le mie possibilità. Sicuramente abbiamo degnissimi poeti, anche in Italia: Magrelli, Cavalli, De Angelis, ma la mia conoscenza e le mie possibilità di giudizio sono così scarse che non mi sembra corretto assumermi la responsabilità di tali asserzioni. Un giorno, dopo che avrò studiato, e studiato ancora e ancora, potrò magari rifletterci, per ora, continuo a farmi insegnare.

Ed ecco, infine, le sue poesie:

Come si canta il freddo
Dell’immobilità?
Un inchiostro bianco farebbe
Soltanto tralucere la distanza
Che mi separa da me stesso.
Le parole, quelle si son fatte criptate,
Codificate in altri sistemi di segno
A me ignoti, per ora.
Un incessante bisbiglio incomprensibile
Che mi indica, m’attira,
Non vuole mostrare un sintagma,
Non concede le coordinate ermeneutiche.
Vivo così,
Appeso al dubbio dell’illusione,
Senza scirocco o maestrale,
Senza mozzo, timoniere, capitano.


Sarà che scende il crepuscolo,
E una limpida bacca bianca
Colora il senso del gusto
E dello spirito,
Distende le vele del sentire;

Sarà mio malgrado
Con la tasca sempre piena,
Col focolare perenne
Della moderna, necessaria certezza,
E il distillato dell’onore
Sulla fronte inclinata;

Sarà che il canto delle madri
Vibrerà in ogni molecola
Del mio cammino,
Sarà il mio tempo e la mia presenza,
E così potrò abbandonare il pensiero,
Distendere le maglie della contingenza
E trapassare
E consentire un linguaggio,
Un incontro, in un luogo utopico:
Sarà la possibilità del mio colloquio,
La parola libera che bramo.


Mi chiamasti «Pietra»
Come si dice sasso fiore uomo.
Ma se mi avessi saputo:
«Topazio» avresti detto,
Agata Alabastro Malachite,
Come potresti dire Ortensia
Iris Narciso Stella alpina.
Caleidoscopica visione
Che da sé interpreta
Non allinea le rette del reale,
Non distingue piani e fuochi.
Così non sai se di Talco
O Diamante, Halite o Galena,
Ossidiana o di Quarzo
La scorza delle mie corde,
E tra bocche le parole aleggiano
E a stento si colgono all’amo;
Le più si fanno viscere d’animali
E volteggi di uccelli.


E cigola cigola
Cigola la porta usurata dai giorni,
Come urlando
Disgustata da tanta monotonia ‒
E s’apre e si chiude
Come caselle
Di calendari infiniti.
Ma placa, Vita,
Questa sorta d’orogenesi
Che mi stringe le caviglie
Legandomi al suolo;
Siano parole divine i volti,
Fratello ogni germe del mondo,
Sia annebbiata l’anima e nuda,
E l’orme stampate dei mortali
Siano effigi eterne sulla Terra;
sia senso la vita.

(E tu cigoli, uscio,
E sai che non serve
Financo sapere
Che la vita non è senso.)


In profonde miniere scavai
Col sangue dell’unghia
E il sudore della ricerca;
Forse un attimo di millenni,
O l’eterno in pochi metri
M’inoltrai profondo
Sulle spalle di Crono
O nella tana,
E ingenti ricchezze
Gettai alle spalle e nascosi,
Simili all’aurea pirite.

Errante in comune ricerca
Giunsi alfine -in principio-
Alla dimora inebriante
Ove un sibilo di fonte
Andava dicendo
“Conosci te stesso”
E l’acqua scorrendo
Liscia e vitrea
Riluceva delle figure
Che la circondavano.

Ivi mi prese il coraggio
E lo sconforto
Di volermi osservare
Per quell’acque canore,
E quasi posatomi
Lo specchio sacro
M’abbracciò tra sette spire
E mi trascinò nel suo letto:
Dal fondo della fonte
Divini firmamenti,
Vette impetuose e docili poggi
Città paesi tribù
Uomini e donne
Di tutti i mondi e le ere,
Respiri di faggi
E lagrime di salice
E L’Aquila sacra
Mi portava tra le sfere.

Fu così che destatomi
Dal sonno celeste
Non volli più macchiare
D’inutile sangue
La terra che volli scavare.
Il viaggio ultramondano
Non ha svelato ricchezze,
Non schiuse verità:
La Fonte fu fonte
Di sapere e di rinuncia.

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